domenica 5 dicembre 2010

Malamente

Realizzazione del fumetto

Personaggio ideato da Christian Ragazzoni
Disegnato da Sarah Floris
Testo di ... Norman Vauxhall

Buona lettura.











lunedì 29 novembre 2010

Progetto: Malamente

Stralcio di Norman Vauxhall

Prima di arrivare alla notizia, spiego cos'è Malamente.
Da più di un anno sono iscritto a DeviantArt e durante questa esperienza ho avuto modo di incontrare un po' di personaggi particolari. Uno di questi, all'anagrafe Christian Ragazzoni, mi colpì particolarmente proprio con con questo progetto, chiamato Malamente. In poche parole: le pagine di diario di un serial-killer.
Era in cerca di scrittori, ma soprattutto disegnatori, volenterosi a supportarlo nel suo progetto con un fine di auto pubblicazione (sempre se qualcuno non fosse interessato altrimenti).
Aveva messo in mostra alcuni pezzi già disgnati e altri testi in attesa di disegnatori. Nonostante l'apparente sovrabbondanza di scrittori pronti ad aiutarlo, sembra che davvero in pochi si siano poi messi a scrivere. Ecco a voi uno di quei pochi.
Con il 5 Ottobre 2010 ho visto un mio sogno realizzarsi. La prima pagina di fumetto basata sul mio testo magistralmente inchiostrata da Sarah Floris.
Pochi giorni fa l'ultima pagina, la sesta, del mio stralcio di Malamente è stata pubblicata sempre su DeviantArt. Come tutte le altre pagine.
Se siete curiosi, potete prendere visione tramite DeviantArt del mini fumetto in questione (a causa del contenuto maturo c'è un filtro per i minorenni e non saranno visibili alcune - se non tutte - le pagine ai non iscritti. Come sempre l'iscrizione è gratuita). In caso contrario sto chiedendo l'OK per procedere con la pubblicazione delle pagine anche qui in Cresezia.

Per ora i link.
Pagina 1
Pagina 2
Pagina 3
Pagina 4
Pagina 5
Pagina 6

Sull'altro fronte Versus sta procedendo pian piano.
Nel frattempo, armatevi di pazienza o godetevi Malamente.

Buona lettura.

venerdì 8 ottobre 2010

Un gatto di nome Caronte

Versus - Intro

Il riverbero dello sparo si sciolse nell’aria e Caronte ne uscì illeso. Il colpo l’aveva mancato.
Era l’istante per il quale valeva la pena vivere: la conferma che anche quella sera aveva sconfitto la morte. Rapido come lo scatto di un atleta al suono della pistola, il piacere allo stato puro gli si riversò nelle vene, intorpidendolo nell’estasi per pochi interminabili secondi. Poi l’emozione cominciò a scemare, toccava a lui. Si girò e puntò la sua arma contro Svetnik.
Il suo avversario aveva chiuso gli occhi e stava aspettando il colpo con apparente serenità, onorando il suo soprannome. Santo, in sloveno.
Caronte esplose l’unico colpo a disposizione, centrandolo al torace. Svetnik lasciò cadere l’arma scarica a terra e portò la mano destra alla ferita mentre si sedeva a terra, poggiando le spalle sulle pareti del vicolo. Il cemento cominciò a tingersi col suo sangue. L’altro ripose la pistola nella fondina sotto la giacca e cominciò ad avvicinarsi all’uomo a terra.
Per definizione erano avversari, ma non riusciva considerarli tali. Facevano tutti parte di una sventura che ci si infliggeva nella libertà di scelta. Per lui quelli erano compagni e l’uomo a terra di fronte a lui era un altro che sé ne andava; un altro che aveva scelto quella strada come tanti altri e ora lasciava proprio a quegli altri l’onere di continuare da soli il loro contratto. Era un finale inevitabile che non amava; non provava piacere in quell’esito, solo rimpianto. Quello che non riusciva a capire era come ogni avversario sconfitto mostrasse sempre la stessa espressione: colpevolezza. Di cosa, lo sapevano solo loro.
Adesso gli toccava aspettare. Per quanto sembrasse una cosa molto semplice, attendere la morte dell’altro giocatore era una straziante ma necessaria precauzione per evitare una possibile situazione molto più imbarazzante nei giorni successivi. Non tutti erano capaci di reggere quella pressione emotiva (qualcuno segnava il punto e scappava via come un ladro) ma chi riusciva ad affrontarla, la fronteggiava con vari espedienti per affievolirne il sapore amaro. C’era chi, pur odiando il fumo, si accendeva una sigaretta dopo l’altra; chi li guardava da lontano, cercando di nascondersi agli occhi della vittima; chi doveva distogliere lo sguardo e controllare solo di tanto in tanto mentre ascoltava musica con gli auricolari a tutto volume. Caronte si sedeva accanto alle vittime, tenendogli una mano tra le sue. In questo era unico.
«Caronte ah? Zdaj razumem zakaj» commentò con un filo di voce lo sloveno.
Caronte gli rispose sorridendo e stringendogli la mano ancora più forte; l’altro aveva capito il perché del suo nickname. Come il personaggio dal quale aveva preso in prestito il nome, accompagnava le vittime dall’altra parte. Morire era un epilogo già abbastanza triste ed essere anche abbandonati era una beffa, quindi non li lasciava da soli al loro destino. Così facendo sperava che il suo assassino si sarebbe comportato allo stesso modo con lui – perché sapeva che prima o poi sarebbe arrivato il suo turno.
Aver firmato quel contratto equivaleva ad una morte sicura, era solo una questione di tempo. Nessuno poteva sapere quando sarebbe successo, ma la statistica parlava chiaro; prima o poi sarebbe accaduto. Durante le partite, la sua mente gli sbatteva davanti agli occhi una curiosa realtà. Era vivo e morto allo stesso momento. Lui non era altro che un gatto di Schrödinger dentro la scatola che ad ogni colpo sparato si apriva per mostrare al mondo se anche quella sera sarebbe sopravvissuto al contratto. Per questo l’inconfondibile suono sordo della pistola faceva scattare dai blocchi di partenza il piacere.
La presa di Svetnik stava diventando più morbida di secondo in secondo. Trascinò lo sguardo un’ultima volta sul viso di Caronte.
«Andrà tutto bene» gli sussurrò in risposta a quel gesto.
Lo sloveno tornò a guardare di fronte a se e lasciò andare la testa contro la parete dietro di lui, sospirando per l’ultima volta. La presa si ammorbidì definitivamente.
Caronte lasciò andare la mano del suo compagno e si allungò per recuperare la pistola scarica che giaceva a terra a mezzo metro da lui, portò il manico accanto a quella della sua e attese che il piccolo led rosso lampeggiasse tre volte in segno di conferma.
Si rialzò da terra e salutò il corpo senza vita dell’altro giocatore con la sua solita frase «Addio e grazie». Lasciò il vicolo per tornare a casa, portandosi dietro due sole certezze: insonnia e vomito. Due compagni che non l’avevano mai tradito nel fine partita, lasciandolo sveglio fino al mattino seguente e facendogli vomitare anche l’anima nell’attesa – giusto per dargli qualcosa da fare.
Un ultimo pensiero si fece strada appena terminata la previsione per il resto della serata “Per fortuna domani è domenica”.

martedì 17 agosto 2010

Exit

Test

Seduto sopra la tazza del gabinetto chiusa, si dondolava avanti e indietro con fare autistico.
“C’è sempre una via d’uscita … c’e sempre una via d’uscita …”
Ripeteva a se stesso quella frase da un quarto d’ora; era diventata una litania alla quale stava cominciando a credere.
Era in mutande e canottiera; aveva freddo e teneva accoccolata al petto la vecchia Colt 1911. La stringeva da talmente tanto tempo che, da gelida che era, aveva raggiunto la temperatura del corpo. L’estremità della canna era lucida della sua saliva. Il colpo era in canna già da cinque minuti buoni, ma non aveva ancora trovato il coraggio di premere il grilletto. Si era sempre fermato al passo precedente.
Chiuse gli occhi, racimolò gli ultimi frammenti di forza d’animo che gli erano rimasti e si portò di nuovo la pistola in bocca. La schiaffò bella in profondità che quasi gli stimolò un conato di vomito, per poi estrarla e poggiare la canna nel centro della fronte.
La litania continuava a correre nella sua testa mentre era in attesa dell’ultimo fremito di coraggio per chiudere in bellezza la serata.
Eccolo.
Uno sparo e poi buio. Agognato riposo. Pace.

Aprì gli occhi appena riprese coscienza. Era ancora seduto sulla tazza e per un istante pensò che tutto fosse stato un sogno, ma non era così. Aveva sparato.
La pistola era ancora in mano e goccioline di sangue e frammenti del suo cranio erano sparsi in giro per il bagno. Era solo svenuto per lo shock, anche se la cosa non collimava con quel casino sparso sulle piastrelle. Si alzò per puntare lo specchio che gli confermò quanto sospettato. Il foro gli divideva in due la fronte.
Incredulo, portò la pistola alla tempia per terminare quel crudele scherzo del destino e chiuse gli occhi.
Un colpo.
Un altro.
Un altro ancora.
Li riaprì, fissando allo specchio i quattro fori gli percorrevano il cranio e constatando, incazzato, quello strano attaccamento alla vita.
“ALLORA?! – urlò – COSA CAZZO DEVO FARE PER AVERE UN PO’ DI PACE?!”
A quanto pare quella non era la via d’uscita che sperava.

sabato 31 luglio 2010

Accadde una notte

Test

Di notte non mi sveglio mai senza un motivo.
Erano le tre di notte quando mi ritrovai con gli occhi spalancati nel buio. Sarebbe dovuta essere uguale a tutte le altre notti nelle quali mi svegliavo per bere o per correre in bagno in preda ad un bisogno fisiologico qualsiasi; invece no, ero sdraiato tranquillo sotto il lenzuolo in una calda notte d'estate con una domanda che mi girava in testa: cosa stava succedendo?
Provai ad analizzare la situazione in modo razionale e cominciai a credere che la teoria della sete fosse la più logica. Avevo passato la sera con qualche amico a rimpinzarmi presso il ristorante giapponese qui vicino ed il fatto di essermi svegliato per la sete era l'ipotesi più probabile.
Decisi di alzarmi e andare in cucina portandomi dietro una bottiglietta di plastica vuota per farmi una scorta per dopo, in caso di necessità. Raggiunsi la cucina lasciando che fossero le luci esterne a guidarmi; mi sarebbe dispiaciuto accendere le luci per così poco e non volevo rischiare di svegliare qualcun altro a casa.
La porta finestra che dava sul giardino interno era aperta permettendo a quel caratteristico odore, aspro e forte, di riempire la cucina. Sul momento non me ne accorsi; lo percepii solo quando il gatto si precipitò tra le mie gambe con il pelo gonfio, salutandomi con un miagolio sommesso. Lo accarezzai per rassicurarlo mentre cercai di capire dove avevo già sentito quella puzza. Mi diressi verso il giardino interno, colmo di un silenzio innaturale.
Appena uscito i miei occhi incrociarono lo squarcio nel terreno che si apriva nel centro del verde; in contemporanea il mio cervello ricordò dove avesse già sentito quell'odore di sangue e zolfo.
Due demoni, emissari dell'inferno, erano in piedi accanto alla voragine, fissandomi con aria seria.
Il più grosso fece un passo verso di me e prese fiato "Senti, ha ricominciato" disse indicando il buco mentre cercava di accennare un sorriso amichevole " Non è che potresti ancora …"
Sbuffai e gli diedi le spalle mentre rientravo in casa per andare a prendere l'attrezzatura. Lo sapevo – pensai – di notte non mi sveglio mai senza un motivo.

martedì 29 giugno 2010

Onironauta

Experiment

Solo … scappo. Sono ventisei ore che non dormo e che fuggo. Ho smesso di correre molto tempo fa, ma non posso fermarmi, non sono al sicuro. Non c’è un riparo.
È l’alba. Vedo oltre la collina una casa abbandonata. Cadente e sporca ma rassicurante. Almeno voglio far finta che sia così, sembra una visione paradisiaca. Voglio che sia un rifugio sicuro anche se so che non lo è. La stanchezza annebbia i miei pensieri.
Sembra distare un chilometro e i miei inseguitori ormai dovrebbero essere abbastanza lontani per non accorgersi della mia fermata; nonostante sarebbe così ovvio. Non c’è altro nelle vicinanze ma non ho più la volontà di continuare. E’ un rischio che voglio correre. Sono troppo stanco.
La porta non è stata chiusa a chiave, la richiudo dietro di me e non vedo le chiavi. Peccato, mi sarei sentito più tranquillo.
Cerco l’angolo più buio, nascosto e irraggiungibile della casa, nella cantina, in una piccola stanzetta dove dovevano aver fatto stagionare qualche cibo tipico. Sembra un sogno vedere il mio materassino aperto e steso sul pavimento.
Ci crollo sopra e chiudo gli occhi. Basta dare un momento alla mia coscienza perché mi lasci in pace per dormire. Finalmente.

Mi sveglio. Ho dormito quasi ventisei ore. Lui si è addormentato ed è meglio che lo protegga. Sta facendo così tanto per me. Vediamo dove siamo finiti. Sembra che abbia trovato una casa dove stare per un po’. Deve riposarsi.
Salgo al piano di sopra, il piano terra. Si è messo a dormire in cantina. Deve essere terrorizzato da quello che lo sta seguendo. In fondo chi non lo sarebbe.
C’è una cucina, un grande salone, stanze da letto al piano di sopra con materassi veri. Mi chiedo perché non abbia voluto andare a dormire lì.
Vediamo se in cucina c’è qualcosa di utilizzabile. Anche un tè andrebbe bene.
A quanto pare non è rimasto nulla. A parte qualche insetto affamato. Devo fare da vedetta. Al piano superiore c’è una finestra che ha una buona vista sull’alba. Se non ricordo male, dovremmo essere arrivati da lì.
Vorrei poter avere una sedia, ma non importa. Starò in piedi tutto il tempo necessario, dovessero anche passare dieci ore. Glielo devo. Se solo avessi la forza anche qui.
Con l’alba gli splendidi colori della notte scompaiono e lasciano posto al grigiore della luce. Quelle intense tonalità di giallo, arancio, rosso e viola che intagliano la nostra notte scompaiono, sostituite dal triste abuso di luce del sole.
Dovrebbe essere parecchio stanco ad aver camminato per tutto questo tempo; in questo loro sono molto più resistenti di noi. Di contro noi possiamo vedere e vivere un’esistenza diversa, più profonda. Forse più viva o più vera.
Meglio guardare anche dalle altre parti. Peccato che non possa uscire dalla casa, la porta è chiusa. Da solo non riuscirei ad aprirla, ma in due potrebbero aprirla. Sono confinato qui. Peccato, avrei voluto fare di più. Se lo merita.
La finestra sul retro non mostra nulla. Solo un prato infinito. Credo come quello che abbiamo attraversato per tutto questo tempo. Non ho potuto vederlo, ho dormito quasi per tutto il viaggio, ma l’ho percepito. Anche perché se avesse trovato altro, si sarebbe appisolato prima e non avrebbe aspettato così tanto tempo per riposare.
Torno su, all’altra finestra. Da qui non dovrei temere nulla.
Il sole comincia ad alzarsi, spero che possa dormire tutto il giorno. Sarebbe difficile, molto difficile riuscire a svegliarlo prima del tempo. A meno che non stia sognando. Stanco quanto è, la vedo dura.
Torno alla cantina e alla stanza per la stagionatura. Dorme pesante e senza sogni. Speriamo che esca da quella specie di coma. Così com’è non riuscirei a fare molto.
Davvero non riesco ad aprire la porta? Ho dormito parecchio e dovrei aver messo da parte un po’ di energia da usare. Proviamoci.
Niente da fare, le dita fanno presa ma non riesco a girare la maniglia. Buttarla giù è improponibile. Mi rassegno a proteggere dalla finestra al piano di sopra.
Il sole ha reso tutto grigio. Mi appollaio sul davanzale della finestra, cercando di mettermi comodo per far passare le ore che mi attendono.
L’ombra della casa diventa sempre più piccola man mano che il sole si alza e si porta allo zenit. Forse davvero riuscirà a dormire per il tempo che gli serve.
Oh cazzo, no. Eccoli. Sono tornati. Quel bastardo d’ombra e il suo amico avvolto nelle cinghie.
Camminano a stento, ma la figura nera non ha perso quel ghigno folle dal viso. Alza lo sguardo e mi vede. Merda! Me l’ero dimenticato. Ora sono certi che siamo qui. Devo andare a svegliarlo, ha riposato quasi sei ore, speriamo che sia uscito dal coma, o siamo nella merda.
Corro giù per le scale e guardo la porta, speriamo che sia più dura di quello che sembra. Resisti.
Eccolo.
Sta dormendo ancora profondamente. Nessun sogno dal quale poterlo svegliare. Come cazzo faccio. Mi serve qualcosa, un sasso o una lattina vuota. Qualcosa di leggero.
In cucina non trovo niente e in sala l’unica cosa di abbastanza piccolo è un porta candela in ottone. Ma è troppo pesante.
Hanno raggiunto la porta. Stanno cercando di aprirla, ci stanno armeggiando.
Devo tornare sotto, se mi trovano qui da solo è finita.
Si è girato nel materasso ma continua a non sognare. Maledizione. Cerchiamo un sassolino, ci sarà qui sotto no?
Guardo per terra, in cerca di un qualsiasi frammento abbastanza leggero da poter portare via ma niente da fare. Sento la porta di casa aprirsi e anche richiudersi. MERDA! Ce l’hanno fatta. Qui si mette male, non sono mai stato così vicino all’annichilamento. Cazzo. Svegliati.
Gli porto le mani sul corpo e cerco di scuoterlo. Sento i passi avvicinarsi, stanno diventando sempre più veloci. Non riescono a correre, sono troppo stanchi, ma si sentono già alla meta. Mi sono rimasti solo pochi secondi. Urlo con tutto il fiato in corpo “DAI SVEGLIATI!” ma non mi può sentire, non sta sognando. Continuo a scuoterlo ma non c’è nessuna reazione. I passi si fermano, guardo l’uscio della stanza. Eccoli.
Mi fissano e il ghigno dell’ombra si fa ancora più largo e bianco.
E’ l’ultima chance. Mi lascio cadere su di lui.

Cado sul materasso.
Sono sveglio. Ma cosa è successo? Non ricordo nemmeno di aver sognato. Ho dormito solo sei ore. Mi sento già meglio, ma so che non posso restare qui ancora a lungo. Rischio di farmi prendere.
La porta di casa è ancora chiusa ... ci sono delle impronte … cristo … devo esserci andato vicino.
Spero solo di averlo salvato, aver fatto tutta questa fatica per niente sarebbe uno smacco.
Meglio rimettersi a correre per un po'.

sabato 5 giugno 2010

Is that time again?

Sono circa due settimane dell'ultima "pubblicazione".
In questo periodo ho sondato tre possibili storie da portare avanti, oltre che due revisioni che vorrei fare.

Partiamo dalle tre storie.
Avevo lasciato in sospeso la pistola e il carillon, mentre nel frattempo avevo cominciato ad abbozzare qualcosa su una storia in un ambientazione post-apocalittica.
Quest’ultima si potrebbe chiamare “L’apocalisse di San Lorenzo”. Non vi spaventate, non si tratta di niente di religioso, ma solo di … coincidenze. Credevo di avere la storia e mi ci sono impegnato, ma alla fine mi sono reso conto che avevo solo l’ambientazione. Non male visto che ho sempre desiderato l’idea di scrivere una storia del genere. Ora è accantonata in attesa di una nuova iniezione di idee.
La storia del carillon, temporaneamente archiviata come Legacy, è completa, ma ho paura che non abbia il giusto spessore per il semi-horror che dovrebbe essere. Non ho metabolizzato appieno ancora il protagonista e il suo… mi fermo qui.
Ho preso coraggio e sto cercando di scrivere la storia della pistola, del filone (o quello che spero possa diventarlo) Versus. Il mio grande obbiettivo è riuscire ad introdurre un’ambientazione nella narrazione senza risultare noioso o ossessivo.

Per le revisioni, stavo pensando di riprendere in mano il dossier di Sophie Farmer, la famosa punk, e di rimetterlo in ordine. Quel racconto merita qualcosa di più che non sono riuscito a dargli al momento giusto.
La seconda revisione sarebbe solo una dolce rifinitura di Cinical (dovrò anche trovare un titolo migliore?), dato che mi piace come racconto e merita una nuova ondata di attenzione da parte mia.

Mi dispiace non avere nulla di più da farvi leggere per ora.

Buona notte e buona fortuna.

martedì 18 maggio 2010

Awake and guilty

Fair deal - Part 4

Ognuno aveva raggiunto il suo obiettivo e ottenuto quello che voleva.
Samantha si crogiolava nell’estasi del sangue fresco che le stava impregnando il corpo mentre Roberto era riuscito a riavere Sara. Il suo corpo era libero da quel misto di sensazioni che lo opprimeva dal suo risveglio. Il suo petto era libero e respirava con serenità. La sua mente era appagata ed il suo corpo era dolorante, ma non riusciva a sentirlo in quanto il piacere della droga lo anestetizzava. Rispetto a prima il sollievo era enorme; era in pace.
L’effetto stava passando il suo massimo e avrebbe avuto una decina di minuti prima di ritrovarsi faccia a faccia con i risultati delle sue azioni. Avrebbe approfittato del bagno libero per darsi una ripulita ed andarsene subito. Scattò in piedi per andare verso la toilette ma la reazione del corpo lo immobilizzò sul posto. Alzandosi gli si era oscurata la vista, perdendo in un attimo la visione periferica e la percezione dei colori. Rimase fermo per una buona manciata di secondi e la vista riprese la sua normale funzionalità. Era la prima volta che gli succedeva e non ci volle molto per capire quanto brutta fosse la sua situazione. Si diresse verso la destinazione, cercando di evitare il suo riflesso nel piccolo specchio appeso alla parete.
Nel frattempo, nella stanza da letto il sogno stava scomparendo, lasciando che la realtà tornasse a prendere il posto lasciato dal cottage e da Sara. Quando rientrò dal bagno quello che trovò fu solo uno squallido locale notturno ed un corpo stupendo che si prostituiva mosso dal richiamo del sangue.
Raccolse i propri abiti dalla sedia e da terra per poi rivestirsi, seduto sull’angolo del letto, mascherando la fatica della sua situazione. Sentiva la sua pelle fredda e sudata, il cuore era in tachicardia e la sua mente faticava sempre di più a concentrarsi man mano che il tempo scorreva. Un presentimento si era fatto strada nei suoi pensieri, percepiva la fine vicina; più di quanto avrebbe mai voluto. Aveva sempre sperato che potesse coglierlo impreparato, magari durate un morso di Samantha, in mezzo al piacere, con l’immagine di Sara impressa nei suoi occhi – avvisarlo del suo arrivo era il tiro peggiore che potesse fargli. Non voleva poter riflettere su ciò che sarebbe successo, come aveva sempre fatto da quando aveva scoperto Samantha e il Grungy. Avrebbe voluto chiudere con il poco futuro rimasto in un colpo solo; indolore. Ma adesso capiva che non sarebbe stato così. Avrebbe sofferto.
Stava aggiustandosi il maglione quando sentì il materasso distendersi. Samantha si era alzata dal letto per dirigersi verso il bagno camminando a piedi nudi; i passi, che risuonavano sordi sulle piastrelle dell’altra stanzetta, vennero coperti dal rumore dell’acqua della doccia che cominciò a scorrere. Roberto finì di rivestirsi e si alzò per raggiungere la porta. Portò la mano sulla serratura e la fece scattare. Prima che la sua mano potesse abbassare la maniglia, lei si schiarì la gola tono di ammonizione. Voltandosi vide Samantha con ancora addosso l’intimo nero che le aveva portato, poggiata con una spalla contro la parete.
“Dimentichi niente?”
Roberto trovò insolita la sua richiesta e diresse la mano istintivamente sulla tasca del portafoglio. In risposta lei sbuffò e si avvicinò, recuperando nel tragitto il gilet azzurro di Sara dalla sedia.
“Parlavo di questi. Che fai, li lasci qui?”
Sulla sedia e a terra giacevano gli abiti di Sara ed il borsone era relegato in un angolo.
“Ti stanno così bene addosso …” osservò quel corpo perfetto per poi perdersi nei suoi occhi un’ultima volta “Tienili. A me non serviranno più”. Sapeva che non avrebbe avuto la forza per portarsi dietro quel fardello e cominciava anche a dubitare di riuscire a tornare a casa.
Prima che Samantha potesse replicare, Roberto la strinse a sé. “Grazie” le sussurrò; lui non sapeva come altro esprimere quanto le fosse grato per quello che era riuscito a rivivere questa notte. L’abbraccio tradiva un profumo di addio che qualunque donna sarebbe stata capace di riconoscere ad istinto, ma non lei. Non era più parte di quell’insieme.
Si lasciarono in silenzio in quanto le parole del saluto morirono in bocca ad entrambi. Roberto voltò le spalle alla camera e superò l’uscio. La porta gli si richiuse dietro.
Senza Samantha quel corridoio sembrava più buio e più vuoto. Era solo con se stesso e doveva muoversi a raggiungere il suo appartamento, il tempo era contro di lui.
Cominciò ad avviarsi verso il salone del locale ma al primo passo quasi si ritrovò a terra. La gamba l’aveva sostenuto a malapena e stava tremando sotto il suo peso. A stento riusciva a controllare il suo corpo – in piena ribellione. Aveva dato priorità alla sua anima e il fisico aveva raggiunto il limite; ora gli stava presentando il conto per tutti maltrattamenti subiti. Le forze lo stavano abbandonando ma lui continuava a mentire a se stesso. Si convinceva di riuscire a raggiungere casa sua, sdraiarsi sul letto e dimenticare tutto; poter ricominciare una nuova vita l’indomani, scusandosi con Andrea, richiamando i suoi genitori, riallacciando le amicizie e tornando dallo psicologo, ma sapeva che non c’è l’avrebbe fatta. Con le forze che gli rimanevano sarebbe stato impossibile arrivare alla panchina della metropolitana, figurarsi sprofondare con la testa sul suo cuscino. Sarebbe stato un miracolo riuscire a raggiungere il guardaroba per riprendere la sua giacca.
Nonostante la situazione e l’assenza di forza, il dolore latitava. Era ancora anestetizzato dalla sua droga e doveva sfruttare il poco tempo rimasto per andarsene da lì. L’idea che potesse svenire nel salone principale del Grungy Red, in mezzo alla calca di vampiri che a quest’ora invadevano il locale era poco allettante; preferì girare su se stesso per dirigersi verso l’uscita più vicina: la porta di servizio sul retro del locale. Non sarebbe stato capace di andare più lontano di così. Percepiva la morte in attesa dietro di essa, doveva prepararsi a soffrire.
Dopo quasi un minuto di passi stentati, spinse con il peso del corpo il maniglione antipanico e l’aria limpida e gelata della notte gli purificò i polmoni intossicati dall’eterno miasma che regnava nel locale. Il freddo gli sfregiò il viso e la pelle. Si rimproverò di aver lasciato la giacca imbottita nel guardaroba.
Poggiò la schiena contro la parete di cemento e si lasciò trascinare giù fino a sedersi a terra, nello sporco che invadeva la stradicciola.
Ecco il dolore che cominciava a salire. L’inerzia data dal misto di piacere ed emozioni che l’aveva portato fino lì era svanito, lasciandolo in preda ai rimorsi che avevano atteso quieti la sua uscita da quel rifugio temporaneo. Adesso avrebbe fatto i conti con loro.
Estrasse il portafoglio ormai pieno solo di una foto, la più importante: lui e Sara. La coppia perfetta guardava sorridente verso l’obiettivo della macchina fotografica. Eccola lì, la sua anima gemella. Roberto fissava il volto angelico di lei, con i suoi lisci capelli neri a caschetto da ragazzina che lo facevano impazzire, quegli occhi azzurro ghiaccio capaci di mozzare il fiato e la piccola, inimitabile cicatrice sotto il mento.
Possibile che non ti ricordi più di me? – chiedeva a se stesso – Possibile che dopo esserti trasformata in quel corpo senza vita mossa solo dal richiamo del sangue, ti sia davvero scordata della tua vita passata? Solo l’iniziale del nome è rimasta. Esse come Samantha, esse come Sara.
In quell’ultimo momento di lucidità, un pensiero corse all’unica persona che gli era stata vicina.

Il telefono fisso di Andrea suonò nel cuore della notte. Si alzò di scatto dal letto – non era ancora riuscito ad addormentarsi – raggiungendo il telefono al terzo squillo. La voce portava con sé il mancato tentativo di prendere sonno.
“Pronto, chi è?”
“Mi dispiace” un sottile filo di voce si fece spazio nel silenzio della telefonata.
“Roberto?” bastò un secondo per capire “ ROBERTO! Dove cazzo sei? Al Grungy?”
“Mi dispiace” la voce si ruppe in un pianto.
“Oh merda, ti chiamo subito un’ambulanza. Cristo non fare scherzi! Non morire, resisti ti prego …” Andrea corse in camera a prendere il cellulare sul comodino. In un lampo aveva già digitato il numero del pronto soccorso e stava indirizzando un'ambulanza al Grungy Red, ma Roberto non riuscì a vedere i soccorsi.

Al funerale presenziarono i genitori ed una ristretta cerchia di amici smossi dalle parole di Andrea. Nessun altro, oltre a lui, versarono lacrime alla cerimonia.

mercoledì 21 aprile 2010

Sweet dreams

Fair deal - Part 3

Prendendo come metro di paragone il corridoio, qualsiasi stanza avrebbe avuto un aspetto più accogliente. Non si trattava di una stanza d’albergo a cinque stelle, ma era sufficiente a far sentire a proprio agio i clienti delle ragazze del locale per qualche ora. Un comodo letto a due piazze occupava il centro della stanza e un piccolo bagno piastrellato con doccia era nascosto dietro l’unica parete divisoria. Anche qui le tonalità giocavano sul viola, compresa la moquette che copriva per intero il pavimento, mantenendo inalterato il tema del salone principale. Il profumo di lei aleggiava leggero nell’ambiente.
Roberto era seduto sul letto e Samantha lo scrutava poggiata sulla parete di fronte a lui. Attendeva una mossa dal ragazzo in quanto, durante le visite quotidiane degli ultimi giorni, si erano già detti tutto e l’ultima cosa che voleva sentir uscire dalla sua bocca era la parola Sara; l’argomento era stato trattato fino in fondo e non voleva più tornarci sopra. Aveva capito quanto Roberto avesse tenuto a quella ragazza, ma le emozioni erano qualcosa al di fuori della sua competenza, ormai ridotte a semplici e meri simulacri ricreati ad arte per quelle occasioni. Anche se fosse ripartito con quella storia non sarebbe stata scortese o severa con lui, almeno non più del necessario; la trattava sempre bene, meglio degli altri clienti, e voleva tenerselo vicino in quanto era l’unico che le dava quanto serviva per andare avanti senza fare la minima storia. Proprio per via di quel suo comportamento lei avrebbe preferito incontrarlo meno frequentemente, ma lui sembrava insistere a volerla vedere tutte le sere. Samantha sapeva che lui, andando avanti così, sarebbe durato ancora poco.
Roberto poggiò il borsone a terra dopo che era stato tenuto in grembo fino a quel momento. Lo sguardo di lei mutò “Hai portato quello di cui mi accennavi ieri notte?”, chiese con aria più amichevole.
“Certo, è tutto qui”, lo spinse verso di lei.
Samantha si portò accanto una sedia e ci si sedette sopra.
“Vediamo”, si allungò in avanti e lo avvicinò a sé. Aprì la cerniera e, incuriosita, cominciò a estrarre dalla borsa i vestiti di Sara. La prima a mostrarsi fu la camicetta a maniche corte bianca accuratamente ripiegata, secondo il gilet scollato grigio azzurro che si sposava con i suoi occhi, a seguire i jeans attillati neri a vita bassa che le piacevano tanto e che metteva solo per le occasioni speciali, poi il fine intimo nero che le aveva regalato per la gita in collina e, per ultime, le scarpe da ginnastica bianche.
Guardò a fondo dentro il borsone, senza trovare altro. “Tutto qui?”, chiese quasi stupita “Mi aspettavo chissà quale perversione”.
Nello scorgere i calzini di seta blu arrotolati nelle scarpe, allungò la mano e ne prese uno “Comunque vedo che non hai tralasciato alcun dettaglio”, commentò mentre lo apriva e lo faceva dondolare. Poi si lasciò andare sullo schienale della sedia mentre lo guardava, in attesa.
“Quindi … per stasera, li indosseresti?” la voce ebbe un tremolio nonostante gli sforzi per apparire tranquillo. La paura che rifiutasse di prestarsi a quello che doveva sembrargli un gioco privo di senso era sempre dietro l’angolo.
“Certo, vuoi guardarmi mentre li indosso?” chiese senza malizia nella voce.
“Non mi fa differenza”
“Nemmeno a me”
“Allora preferisco guardarti”.
Poggiò gli abiti ripiegati sul comò accanto a lei, allontanò il borsone e cominciò ad accennare uno spogliarello. Roberto le rivolse il palmo della mano come a volerla fermare “No, per favore, cambiati normalmente … come se non ci fosse nessuno a guardarti”.
Sul momento lei alzò le sopracciglia, stupita, per poi fare spallucce, tornare a sedersi e cominciare a cambiarsi ignorandolo come da sua richiesta.
Roberto calibrò il suo sguardo per cogliere tutti i dettagli a lui cari in quei momenti d’intimità: come incrociava le braccia per togliersi il maglioncino, il modo in cui si levava le scarpe, l’espressione assente degli occhi, ma concentrata del volto, mentre sganciava il ferretto dietro la schiena; un collage d’immagini che lo portavano ad un mese fa, prima della perdita. L’unica cosa che voleva ignorare era la carnagione di Samantha. La tonalità smorta e pallida della pelle e le occhiaie scure nascoste alla meglio dietro al trucco lo distraevano dal suo obiettivo.
Quando lei cominciò ad indossare i vestiti di Sara partendo dall’intimo, Roberto, senza richiedere nessuno sforzo ai suoi sensi, completò l’inganno e il passato cominciò a intrecciarsi alla realtà del presente. Attorno a loro scomparve quella triste stanza nel retro del Grungy Red venendo rimpiazzata dal bellissimo cottage di montagna della gita. Sara era di nuovo con lui e la vedeva rivestirsi davanti a sé dopo quella mattina incantata, favolosa e unica. Rivivere in modo così reale quel frammento di passato lo toccò nel profondo. Le lacrime erano pronte per uscire.
Liberò i capelli dal gilet appena indossato, finì di aggiustarsi il colletto e s’infilò le scarpe per poi alzarsi e guardarlo negli occhi.
“Sono perfetti, sembrano fatti su misura per me. Come hai fatto?”
“Non importa, sarebbe inutile parlarne”
Un interminabile secondo di silenzio si frappose tra i due.
“Le somiglio davvero così tanto?”
“Più di quanto tu ti possa mai immaginare”, la voce era scossa dall’emozione.
Forse lo lesse nella sua mente o forse il suo viso lo esprimeva in modo così evidente che le sarebbe stato impossibile sbagliarsi. Poggiò una mano sul fianco, spostò il peso sulla gamba opposta e gli sorrise inclinando un po’ la testa. Una lacrima traditrice scivolò rapida sulla guancia di Roberto. Eccola lì, la sua Sara.
Rimase a fissarla per un tempo infinito che gli sembrò comunque troppo breve.
“Vuoi continuare a fissarmi ancora per molto?”
“Scusami, non volevo metterti a disagio”
“Non sono mica a disagio”, il tono si stava caricando di sensualità “volevo solo sapere se potevo cominciare”
Samantha prese l’iniziativa e si avvicinò al letto. Poggiò le ginocchia sul materasso, di fianco a quelle del ragazzo, e con una lenta e delicata spinta della mano lo fece sdraiare. Lo guardò ancora per un istante per poi chinarsi su di lui e portare le labbra sulle sue.
Roberto si sentiva avvolto nel suo aroma, miscelato da quelle due note caratteristiche. Ma, mentre il profumo francese che si metteva non era mai cambiato, l’odore della sua pelle – che tanto aveva amato e gli stimolava la memoria in modo così forte – sembrava deteriorarsi. Incessante, un tono acre e pungente prendeva il sopravvento di giorno in giorno, sottolineando come quel corpo stesse marcendo.
Lei tornò a sedere dopo il bacio, mostrandogli un altro letale sorriso. Si alzò, si tolse il gilet e cominciò a sbottonarsi la camicetta per sfilarsela, invitando Roberto a fare lo stesso con il suo maglione.
I due capi furono lanciati sulla sedia dietro di loro e tornarono a sdraiarsi assieme sulle coperte amaranto. La accolse tra le sue braccia percependo rassegnato il freddo della sua pelle nonostante cercasse di non sentirlo. Faceva il possibile per ignorare ogni stimolo capace di allontanarlo dal suo sogno nel cottage. Lui voleva stare con Sara. Desiderava quel frammento di passato tanto agognato almeno ancora per questa notte.
Passarono intrecciati assieme diversi minuti carichi di passione. Roberto era ormai incapace di discernere la realtà dall’immaginazione alimentata dai suoi ricordi. Nell’estasi di quei momenti lui non era con Samantha, ma con Sara. Quelle sensazioni, quel rivivere così tangibile il suo passato, era la sua personalissima droga, capace di portarlo sull’orlo della morte ogni sera. Correva sul filo dell’overdose senza preoccupazione alcuna in quanto la sua esistenza aveva perso ogni significato. Era meglio prendere quello che poteva finché c’era un respiro a tenerlo in vita.
Samantha da parte sua aspettava impaziente la condizione migliore per prendersi il meritato tributo e nel frattempo cercava di simulare al meglio un piacere che non poteva più far parte della sua esistenza. Il momento giusto le capitò quando si trovarono sotto le coperte, l’uno sull’altra, in vista della conclusione. Scarpe e pantaloni avevano trovato il loro posto sulla moquette per terra.
Era sdraiata supina sul materasso quando portò le braccia dietro il collo di Roberto e si avvicinò al suo viso. Cominciò a baciarlo partendo dal mento, per scendere verso il pomo d’Adamo e infine portarsi a cavallo tra il collo e la spalla dove poté affondare i denti nella carne. Ora anche lei provava un vero piacere, il più puro ed il più potente della sua vita.
Quel delicato pungere lo fece destare dal suo sogno. Nonostante gli sforzi del suo cervello nel farlo rimanere aggrappato al suo passato, il morso lo riportò alla realtà. Era migliorata parecchio dalle prime volte e con l’esperienza stava diventando quasi indolore, ma riusciva ancora a percepire il defluire del sangue e delle forze nel corpo di Samantha. Dopotutto era una vampira come tutti gli altri bastardi che appestavano quel locale merdoso.
Prenditi pure fino all’ultimo goccio della mia vita – pensava dentro di sé – che questo bellissimo istante possa essere anche l’ultimo. Niente ora vale di più.

martedì 20 aprile 2010

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Personal comment

Eh sì. Sta prendendo parecchio tempo la stesura delle ultime parti di Fair Deal.
Ammetto che il titolo non mi piace, spero di cambiarlo appena trovo quello giusto; ma dopo le accurate revisioni che gli sto facendo, il racconto dovrebbe vantare una forma migliore rispetto ai miei standard passati, afflitti dalla fretta e dalla voglia di chiudere.
Spero solo che il finale riesca a portare le emozioni che sto preparando con calma.
Ai lettori l’ardua sentenza.
Spero di colmare presto le vostre attese, all’altezza delle aspettative.

Grazie della pazienza,

domenica 4 aprile 2010

High

Fair deal - Part 2

La stradina era semideserta e le poche persone che passavano accanto a Roberto non concedevano la minima attenzione a quel posto capace di celarsi con estrema facilità dietro l’indifferenza della gente; nessuno dotato di un minimo di buon senso avrebbe mai accarezzato l’idea di superare l’uscio del Grungy Red. In quel momento, lui era l’unico capace di vedere oltre la lercia scritta al neon che sovrastava la piccola porta d’ingresso bloccata dal buttafuori al piano semi interrato del palazzo, ed a percepire qualcosa di più dietro alla musica – se quell’accozzaglia di suoni era definibile come tale – che usciva sorda dalle pareti di cemento dell’edifico. Quella era la sua personale visione dell’ingresso del paradiso; per questo i freni inibitori di Roberto erano incapaci di agire. Adesso niente più aveva la forza di tenerlo dall’altra parte della strada dove, combattuto, aveva cercato di valutare se abbracciare di nuovo quella lenta e piacevole agonia o ritirarsi dal quel doloroso gioco di ricordi. Camminava verso l’ingresso senza timore; era pronto allo scambio: svendere un’altra fetta del suo futuro per un assaggio del suo passato.
Il rito si ripeteva anche per questa notte, del tutto simile a quanto era accaduto per tutte le sere che l’avevano preceduta. Prima di raggiungere la porta si lasciò squadrare dagli occhi imperscrutabili dell’enigmatico bestione immobile di fronte ad essa. Roberto a sua volta l’aveva osservato con attenzione e aveva raggiunto la certezza che se non fosse stato per la carnagione pallida, l’abbigliamento moderno e gli occhiali da sole griffati (nonostante l’ora della notte), il buttafuori sarebbe sembrato uno di quei distributori di sigari a forma di capo indiano che ogni tanto apparivano nei vecchi film americani.
Dopo aver indugiato sul ragazzo ed il suo borsone per qualche istante, il grosso omone gli fece un cenno appena percettibile con la testa, indicando l’ingresso. Roberto ricambiò il gesto in segno di ringraziamento mentre si dirigeva verso la porta che conduceva nella piccola anticamera del locale rivestita di tappezzeria cremisi. La solita receptionist – una snella bionda con capelli corti sulla trentina – si affacciava dalla finestra del guardaroba prestando più attenzione alle sue unghie finte che agli avventori di passaggio. In barba al grosso segnale di divieto che capeggiava vistoso sopra la sua testa, una sigaretta accesa attendeva una nuova boccata, poggiata sul portacenere di fronte a lei.
Senza muovere la testa dalla posizione in cui si trovava, trascinò lo sguardo su di lui per poi tornare a osservarsi le unghie.
“Ciao. Anche questa sera?”, chiese con il solito tono piatto
“Si”, rispose mentre si toglieva la giacca imbottita e la poggiava sulla mensola.
“E quello non me lo lasci?”, posò lo sguardo sul borsone.
“No, mi serve”
Lei accennò una smorfia “Beh, divertiti” .
Roberto spinse la grossa porta isolante e subito il volume della musica lo investì, prima ancora che l’odore di chiuso, polvere, fumo e sudore furono capaci di farsi sentire, misti in quell’atmosfera calda e umida che riempiva il salone principale. La porta gli si richiuse dietro e concesse il tempo necessario agli occhi per adattarsi alla fioca luce rossa e fucsia emessa dai neon e dalle luci stroboscopiche. Il bancone del Grungy Red occupava uno dei due lati corti della stanza alla sua destra, mentre alla sua sinistra troneggiava un grande palco rialzato per gli spettacoli a tema erotico, temporaneamente occupato da un gruppetto metal che scaldava l’ambiente; nel mezzo, oltre le poltroncine con i tavolini per le semplici consumazioni, c’erano alcuni tavoli vuoti che venivano spesso occupati per il blackjack e il poker Hold’em in base alla serata. A prima vista il locale non sembrava niente di più di un immondezzaio che offriva agli avventori un intrattenimento all’estremo della legalità, ma dietro a quell’aspetto di club controverso nascondeva qualcosa di molto più profondo ed incredibile, oltre al limite del reale.
Terminato l’adattamento alla scarsa luce, la vista del locale ancora semi-deserto gli strappò di bocca un’imprecazione sommessa. Era arrivato troppo presto. Confermò la supposizione guardando l’orologio sulla parete di fronte a lui; ci sarebbero voluti almeno altri quindici minuti prima che la solita calca facesse irruzione, e con essa si sarebbe fatto vivo anche il suo assaggio di passato.
Roberto ne aveva un immediato bisogno o la sua mente lasciata libera di correre avrebbe presentato il conto troppo presto. Strinse le dita attorno alla fascia del borsone sulla sua spalla, quasi ad assicurarsi che fosse ancora lì con lui. Il suo contenuto gli ricordava che questa notte non poteva permettersi di sbagliare.
Per far ammazzare il tempo in eccesso decise di bere qualcosa di forte. Gli sarebbe servito.
Nella breve traversata dei tavoli verso il bancone del bar, gli occhi puntarono sulla porta tagliafuoco recante la scritta PRIVATO – formata da grossi caratteri bianchi su fondo rosso – che, con la sua soglia, divideva la realtà da tutti conosciuta con quella a disposizione di pochi sfortunati, quasi la stessa scritta fosse un avviso al riguardo.
Il barista che attendeva dietro al moderno bancone dimostrava di aver superato i quarant’anni già da diverso tempo. Quando vide Roberto, esordì con la frase preconfezionata “Buona notte e bentornato al Grungy, cosa posso servirti?”. Il tono rassicurante della voce faceva a botte con il suo occhio sinistro completamente bianco.
“Ciao, preparami il solito bloody mary per favore”, disse mentre pensava dentro di sé quanto il destino fosse dotato di un’ironia piuttosto cinica.
“In arrivo”, rispose il barista cominciando a trafficare tra vodka, sale, spezie e succo di pomodoro.
Gli occhi di Roberto correvano senza sosta tra l’orologio, il barista indaffarato nella preparazione e la soglia del mondo reale, mentre continuava a chiedersi perché lei non si trovasse ancora nel salone.
“Ecco qui”, il barista gli porse un bicchierone colmo del cocktail preferito da Roberto “e rilassati, la tua Samantha non è ancora uscita. Arriverà a momenti”.
“Grazie”. Lasciò una banconota da dieci euro sulla superficie di vetro satinato del bancone e cominciò a dedicarsi al bloody mary sorseggiandolo con calma dalla cannuccia. Doveva dosarlo con attenzione e distrarsi completamente da quell’attesa straziante; si concentrava sui singoli sapori miscelati, sul salato, sull’accenno di rafano che grattava con delicatezza la gola, il differente piccante del tabasco che faceva bruciare la lingua come una forte pizzicata, sul sapore acidulo e fresco del pomodoro e sulla vodka che lavava via tutto, peccati e tristezza compresi. Almeno così voleva credere. Con gli occhi andava alla ricerca delle particelle in sospensione nel liquido rosso, cercando di intravedere le spezie che danzavano, browniane, nello spazio di quel bicchiere; si perdeva dentro quel colore acceso con la mente, riuscendo a mettere da parte il vero motivo della sua presenza lì; erano lui e il bicchiere, tutto il resto era un alone indefinito di confusione. Solo loro sembravano reali, altro tocco d’ironia del destino.
Un’ombra si stagliò di fronte a lui e alzò lo sguardo. Bastò un attimo per mettere a fuoco quel volto angelico, con i suoi lisci capelli neri a caschetto da ragazzina che lo facevano impazzire, quegli occhi azzurro ghiaccio capaci di mozzare il fiato e la piccola, inimitabile cicatrice sotto il mento.
In un colpo solo, tutte le emozioni fin lì accumulate scomparvero come oscurità davanti alla luce. Il cuore quasi gli cedette.
“Ciao Roberto. Chissà perché, ma ero certa che saresti venuto anche oggi”, Samantha gli sorrise serena, quasi innocente.
Il sangue di Roberto aveva cominciato a battergli in testa, rimbombava potente nelle vene. Stava per piangere, ma questo pianto aveva imparato a controllarlo.
“Ciao Sara”, rispose sorridendo a sua volta.
Un’espressione seria si dipinse sul volto di lei, facendogli perdere quell’armoniosità con la quale si era presentata.
“Scusami … ciao Samantha”, sospirò.
“Vedo che non riesci a resistere neanche un minuto” lo fissò per qualche secondo con un’aria avvilita ed interrogativa per poi esordire “Dai andiamo”. Lo prese per la mano destra e si alzò aspettando che con la sinistra finisse d’un fiato il bicchiere di bloody mary. Gli sarebbe servito, era al punto di non ritorno.
La porta con scritto PRIVATO si chiuse alle loro spalle, lasciando spazio al lungo corridoio scarno, male illuminato e maculato dalla muffa, che serpeggiava nell’ampio retro del locale. Samantha camminava con passo agile, dondolando leggermente i fianchi – per lei sempre troppo larghi ma che lui trovava perfetti – stretti nella gonna corta indossata sopra delle calze nere che coprivano per intero le gambe. Scorrevano le numerose stanze private dove le ragazze come lei portavano i clienti per sfamare i bisogni reciproci: voglia e sopravvivenza. Roberto era concentrato solo su di lei. Fissava e registrava ogni suo singolo movimento, le mani aperte che passavano radenti il suo corpo perfetto, i capelli neri che sventolavano leggeri sopra le sue spalle, il passo aggraziato e deciso. Il piacere dell’attesa era ai massimi dell’intensità, sembrava una mano che gli stringeva il petto oltre lo sterno. Si fermarono davanti alla stanza 12, la sua. Aprì la porta e lo fece accomodare indicandogli il letto. Appena superata la soglia, lei chiuse la porta e girò la serratura. Fuori si accese la scritta “Occupato”. Nessuno li avrebbe disturbati per tutto il tempo necessario.

martedì 16 marzo 2010

Falling down

Fair deal - Part 1

Le due anime gemelle si erano ritrovate, di nuovo unite nella perfezione del loro amore. Il loro rapporto – fondato sul rispetto reciproco, sulla complicità e sulla mutua ricerca del piacere – poteva rivivere. Roberto si sentiva rinato dal più profondo degli abissi e il suo corpo era invaso dalla gioia. Credeva di averla persa per sempre, invece erano abbracciati ancora una volta alla calda luce del tramonto che andava svanendo, con i corpi che quasi si fondevano l’uno nell’altro. La stringeva forte come non mai e sapeva che questa volta niente avrebbe potuto separarli di nuovo. Ma il sollievo provato non riuscì a durare più di un profondo sospiro. Con il buio, quei quattro bastardi tornarono a farsi avanti, prima colpendo lui, e poi, credendolo morto, portando via Sara. Roberto la sentì urlare, sempre più forte. Con tutte le forze cercava di alzarsi per aiutarla, ma gli fu impossibile. Giaceva a terra, immobile, incapace di urlare o di chiedere aiuto. Alla fine il grido di lei venne soffocato e da quel momento lui non fu più capace di sentire alcun suono. Era solo nel buio e nel silenzio più assoluto e dopo un istante, parso un’eternità, riuscì a liberarsi da quella paralisi, gridando con tutto il fiato che aveva in gola.
L'urlo risuonò nella stanza e Roberto si risvegliò seduto sul letto, coperto di sudore.
Anche questo giorno, aveva rivissuto in sogno la sera dell’aggressione e, come ogni volta, cercò di sedare il pianto che stava tornando a bussare alla gola. Fuori la notte stava per cominciare e gli ultimi toni di rosso scomparivano all’orizzonte, tagliuzzati dalle strisce sottili di nuvole che, silenziose, si diradavano.
Il crudele ricordo gli stava rigando le guancie con lacrime che non riusciva a fermare. Visto lo scarso risultato nel ricacciare indietro il pianto si lasciò andare, sfogandosi in una gridata disperazione. Nemmeno nel sogno era capace di salvarla.
Dopo diversi minuti il dolore si placò da solo. Era ancora interrotto da saltuari singhiozzi quando si alzò. Ogni giorno si indeboliva sempre più e oggi gli risultava faticoso persino tirarsi su ma c’erano troppi ricordi in quel letto e nell’appartamento dove stava. Faceva male. L’unica cosa che gli restava da fare era guardare fuori, la città, nonostante la odiasse per come l’avesse trattato. Quella metropoli era stata il sogno suo e di Sara. L’obiettivo di vivere assieme e formare una famiglia era svanito, ingoiato da quella stessa città, divenuta una grottesca creatura di luci, acciaio e cemento; una giungla moderna ed inospitale, incapace di accogliere la vita umana. La osservava dalla finestra, cercando di evitare il riflesso del suo volto sul vetro. Aveva paura di vedere ciò che stava diventando. Sapeva che stava peggiorando ogni notte e non aveva più il coraggio di trovarsi faccia a faccia con quella realtà scomoda; per questo motivo nessuno specchio albergava più nell’appartamento da diversi giorni. Tutto quanto attorno a lui era diventato ostile e casa era una definizione che non aveva più niente a che fare con quel posto.
La notte che avvolgeva la città era una visione capace di innescare in lui quel desiderio folle che si gonfiava e annodava sotto lo sterno, quella voglia di riassaggiare il suo passato, quel gesto irresistibile che lo stava uccidendo con lenta dolcezza. Anche questa sera sarebbe tornato al Grungy Red.
Si diresse verso la cucina dove scartò l’ennesima tavoletta di cioccolato. Buttò la carta tra le altre gemelle accartocciate sul fondo del cestino e mentre si apprestava a dare il primo morso, il telefono decise di interromperlo.
Una frecciata lo colpì al cuore. Sapeva chi era e quanto l’altro stesse soffrendo; era doloroso per entrambi. Era stata una scelta difficile e straziante quella di tagliare i ponti con il passato, ma non voleva recare ulteriori dispiaceri alle persone che gli erano care.
Fece un sospiro e attaccò il vivavoce. Dalla piccola cassa del telefono uscì a tutta forza la voce amica e familiare che lo aveva accompagnato nella sua esistenza fin dall’asilo “Ciao Roby sono Andrea, ti prego non riatt—”, nonostante la preghiera il dito di Roberto chiuse la comunicazione.
È meglio così per tutti – pensò – mi dispiace ma non potete più salvarmi, ho scelto la mia strada.
L’effetto della voce del suo amico, per quanto breve fosse stata la comunicazione, gli strinse lo stomaco rendendolo incapace di finire la tavoletta. Faticò per arrivare a metà.
Andò a prepararsi in bagno, dove lo specchio aveva lasciato il posto ad una serie di grandi scritte a pennarello. Erano le stesse bellissime frasi che lei gli aveva scritto sopra nel corso della breve convivenza assieme. Frasi d’amore, di voglia di vivere e di coraggio che oggi gli facevano male. Anche se si trattava della grafia di Roberto non cambiava le cose, rivedeva lo stesso quella di Sara. Doloroso, ma non poteva farne a meno.
Con un sospiro si infilò sotto la doccia ancora fredda. Mentre lo scorrere dell’acqua cercava di sottrarlo a quel crudele gioco di ricordi, il telefono continuava a squillare ad intervalli cadenzati; Andrea cercava di far tornare alla ragione il suo amico, ma i suoi sforzi continuavano ad essere ignorati. Anche se era certo che non l’avrebbe mai ascoltato, lasciò l’ennesimo messaggio nella segreteria telefonica “Roberto ti prego, smettila di ucciderti in quel locale merdoso; so che non riesci a sopportare il dolore, ma devi superare questa fase. Sara sarà anche morta, ma tu no, non ancora! Resisti. Torna dallo psicologo, esci con noi, richiama i tuoi, cazzo fai qualunque cosa ma non andare più al Grungy Red. Cristo Roby, non ho intenzione di leggere sul giornale la notizia della tua morte …”, la voce si incrinò con un singhiozzo durante la breve pausa “non potrei sopportarlo. Ti prego richiamami”.
Uscito dalla doccia, indossò gli stessi vestiti del giorno prima e si diresse verso l’ingresso, dove una rinnovata e potente vampata di desiderio gli appesantì il torace appena gli occhi si posarono sul borsone che aveva preparato quella mattina e poi dimenticato. Adesso non bramava altro che essere già lì. Prese con sé la sacca e si lasciò l’appartamento chiuso a chiave alle spalle mentre il telefono, incessante, continuava a suonare invano.
Il locale distava un paio d’ore a piedi dal suo appartamento. Durante il viaggio, le emozioni che si mescolavano e che gli pulsavano da sotto lo sterno erano molteplici, forti ed incomprensibili. Ogni rimando del suo cervello a quello che stava per raggiungere, portava una nuova ondata di desiderio che lo spingeva a cadere sempre di più nel baratro in cui si era volontariamente perso. Resistere due ore con un tale scompiglio emotivo addosso lo avrebbe distrutto prima di arrivare, facendolo crollare in un nuovo pianto e in un’ondata di rimorsi. Per fortuna la metropolitana accorciava di parecchio quel supplizio di emozioni, con l’unico rovescio di dover fare i conti con i vetri delle carrozze e con i loro riflessi. Non voleva vedersi.
L’ultima volta, almeno quattro giorni fa, il fisico deperito, le occhiaie scure e la carnagione pallida avevano cominciato a fargli troppa impressione. Sembrava un drogato e dentro di sé sapeva come il termine calzasse perfettamente al suo stato attuale – se poi avesse fatto attenzione agli sguardi, ai commenti ed agli atteggiamenti degli altri passeggeri del convoglio, avrebbe ricevuto un’ulteriore conferma di quella sua condizione.
Viaggiava con lo sguardo perso oltre i finestrini e gli occhi scorrevano sulle scarne pareti di mattoni dei tunnel sotterranei. In quei momenti di inattività, dalla sua mente emergevano in sequenza tutti gli eventi che spinsero a quell’infelice routine; l’ultima bellissima gita avuta con Sara sulle colline oltre il confine e la stupenda alba passata assieme in quel piccolo cottage, l’aggressione e la perdita della sua adorata metà in quella triste notte, la prima sera a Grungy Red ed infine il doloroso addio dagli amici.
Per non farli soffrire più del necessario aveva voluto interpretare la parte dello stronzo ipocrita che aveva sempre mentito riguardo alla loro amicizia; era certo che così, al momento della sua morte – che sapeva avvicinarsi a gran velocità – nessuno avrebbe trovato molte lacrime o compassione per lui. Erano stati tutti dei grandi amici ed insostituibili, vicini nel momento del bisogno – soprattutto nei giorni dopo la perdita di lei – e non meritavano di soffrire più del dovuto. La cosa funzionò, eccetto che per Andrea. Aveva intuito cosa stesse nascondendo dietro a quello strano atteggiamento che non gli era mai appartenuto.
L’ultimo ricordo prima della destinazione era sempre lo stesso: il volto del suo amico con gli occhi carichi di lacrime pronte a cadere; aveva capito la follia del suo gesto e sapeva che quello sarebbe stato il loro ultimo incontro. Era un addio. Avrebbe tentato qualsiasi cosa pur di salvarlo. Roberto sapeva che era vero, ma non glielo permise.
In meno di mezz’ora la sua figura si stagliava contro l’insegna rossa del locale.

venerdì 26 febbraio 2010

Closing the dossier

Exokaine tale - Part 4

Conoscevamo la dottoressa Miriam Percy da parecchio tempo. Esercitava questa professione da molti anni e oramai non era più la giovane dottoressa che avevamo conosciuto quasi dieci anni fa.
Dopo i soliti convenevoli, ci invitò ad entrare nella sala dove attendevano affiancati i corpi esanimi di Sophie Farmer e di Henry Maxwell. I due riposavano a mezzo metro l'uno dall'altro all'interno della stanza fredda e metallica.
“Il vostro fiuto non vi ha ingannato”, esordì il medico mentre camminava verso i corpi “in tutti e i due casi vi trovate di fronte ad un corriere che trasportava droga, partiamo con il ragazzo, Henry; grazie…” esitò “perdonatemi, a causa del suo incidente e alla sua morte sono riuscita a capire quale fosse il mistero dietro al caso di Sophie”
Si portò accanto al braccio sinistro del ragazzo e, dal vicino carrello, prese un divaricatore chirurgico “So che non vi impressionate, ecco, guardate...”, inserì l'attrezzo nel taglio effettuato nel braccio per portare la frattura in vista “che ne pensate?”
Mi sfuggì un imprecazione “Penso di cominciare a capire, è quello che penso?”, chiesi.
“Se quello a cui sta pensando è una protesi cava, ha perfettamente capito”, rispose la dottoressa “e come potete notare, non è nient'altro che un insospettabile contenitore per trafficare qualsiasi cosa sia abbastanza piccola da riempire le cavità. In questo caso la protesi è stata riempita di eptametilexocainammolo puro per massimizzare il profitto, almeno credo, e per lo stesso motivo suppongo che la protesi si sia rotta”, Miriam mi guardò.
“Per aumentare il volume trasportabile, hanno costruito le pareti troppo sottili e quindi fragili, era quello che stava pensando, vero?”, chiesi.
“Esattamente. Il caso di Henry quindi risulta chiuso. Passiamo a Sophie”, la dottoressa si spostò verso l'altro tavolo, depositando il divaricatore in un raccoglitore apposito e prendendone un altro da un carrellino li vicino. “Ho sospettato che la nostra punk fosse morta seguendo la stessa dinamica. Andando per esclusione ho preso in considerazione delle ossa lunghe e di grandi dimensioni e seguendo la logica della massimizzazione dei profitti—“
“Avrebbe fabbricato”, la interruppi “la protesi dell'osso più grosso del corpo umano, il femore”
Alla mia affermazione, la dottoressa annuì ripresentando il suo sorrisetto malizioso “Ed è proprio li che sono andata a guardare. Tra le due gambe, sono andata a prendere quella che sembrava messa peggio”, indicò la gamba destra, quella che nel rapporto era stata evidenziata per la grande presenza di segni di aghi. Prese il divaricatore e espose la parte inferiore del femore per poi risalire, mostrandolo con calma per tutta la lunghezza. Rabbrividii alla vista della protesi. Era percorsa da crepe da cima a fondo. Anche questo sostituto dell'osso era stato fabbricato con le pareti troppo sottili ed incapaci di sostenere il peso la ragazza per tempo sufficiente.
“Dalle fessurazioni, la droga ha cominciato a diffondersi lungo tutto il corpo e … beh, il resto lo sapete. Ora penso che il caso sia finalmente archiviabile.” Miriam buttò via anche il secondo divaricatore “Avrete il mio rapporto nella giornata di domani; vi serve altro?”
“No, grazie dottoressa, ha fatto anche molto più di quello che avrebbe dovuto”, allungai la mano per stringere la sua e ringraziarla “Grazie”.
Ci voltammo per andarcene.
Usciti dall'ospedale, chiamai l'aeroporto per avvisarli che i nastri non erano più necessari. Il punk dossier era chiuso.

Big News

Exokaine tale - Part 3

Ci precipitammo all'aeroporto a sirene spiegate, zigzagando in mezzo al traffico. Tutto il reparto ambiva trovare la soluzione del caso e questa volta non dovevamo farci sfuggire alcun indizio. Raggiungemmo Heathrow in un batter d’occhio e scoprimmo che ci attendevano tre elementi variegati sui quali indagare: un infermiere scosso, due gruppetti di skinhead composti da tre massicce persone ciascuno, uno di estrema destra e uno di estrema sinistra, ed il cadavere di un ragazzo, Henry Maxwell, con un’evidente frattura all'omero sinistro.
Chiedemmo subito alla sorveglianza la dinamica dell'incidente in quanto i due gruppi di estremisti cominciavano a scaldarsi e non potevamo dedicare l'intera sicurezza di un ala dell’aeroporto per tenerli divisi, dovevamo subito capire se e cosa centravano.
Un agente della sicurezza ci spiegò che, per uno sfortunato caso, i due gruppi si incrociarono, passando dagli insulti alle percosse nell'arco di pochi secondi, senza dare tempo alla sicurezza di prendere atto della situazione e di intervenire per sedare gli animi. Nella rissa, un colpo accidentale andò a centrare Maxwell facendolo finire a terra. Quando arrivò il personale della sorveglianza per dividere il gruppetto dei bellicosi, trovarono il ragazzo che stava cercando di rialzarsi senza successo, incurante del fatto che il suo omero era spezzato in modo evidente; non sembrava che se ne fosse accorto o che stesse provando dolore. Un agente lo aiutò a rialzarsi per accompagnarlo in infermeria, mentre gli skinhead venivano divisi, perquisiti dalle autorità aeroportuali in cerca di armi. Non venne trovato nulla.
Compresa la dinamica, mandai un agente a parlare con gli estremisti, indicandogli che, in caso non avesse tratto alcuna informazione o relazione utile alla risoluzione del caso, poteva avvisare la sicurezza di lasciarli andare.
Da questo punto in poi, il personaggio chiave diventò l’infermiere.
Steven, questo il suo nome, ci raccontò che Maxwell venne portato in infermeria, accompagnato da un agente della sorveglianza. Il ragazzo, che dimostrava una ventina d’anni, era pallido come uno straccio, sudava freddo, era molto scosso e parlava in modo rapido e sconnesso. L'infermiere cercò di rassicurarlo, avvisandolo che la frattura non era poi un danno così grave e che nell’arco di un paio di mesi sarebbe stato come nuovo. Henry non si dimostrò affatto collaborativo, oltre che a ripetere costantemente “oh cazzo”, insultò l’infermiere insinuando che oramai era spacciato. Steven lo fece sdraiare sul lettino quando notò preoccupato, lo stato di eccitazione di Maxwell, gli occhi dilatati e le iridi virate verso il rosso. Quegli occhi li aveva già visti sul corpo di Sophie Farmer qualche mese prima e capì immediatamente cosa stava succedendo. Con tutto se stesso, con ogni metodo possibile cercò di tenerlo in vita contrastando l’attacco della droga.
Inutilmente.
Anche qui non poté fare altro che constatare l'inevitabile decesso e chiamare ancora una volta la polizia.
Alla luce di questa testimonianza, facemmo trasferire immediatamente il corpo presso il medico legale che si occupò del Punk Dossier. Anche qui chiedemmo di eseguire l’autopsia del corpo in modo molto accurato, senza tralasciare alcun dettaglio nel rapporto e, sempre come per il caso precedente, chiedemmo all’autorità aeroportuale di avere il prima possibile una copia dei nastri delle telecamere di sorveglianza interne, da tutte le angolazioni possibili, del tragitto di Maxwell, dall’aereo fino al decesso in infermeria.
Sapendo che per i nastri ci sarebbe voluto qualche giorno, sotto pressione del nostro dipartimento, all’autopsia fu richiesta e data maggiore priorità rispetto al normale iter. Quasi sul finire della giornata, il medico legale ci contattò dicendo di conoscere le cause del decesso di Maxwell e di aver risolto il caso di Sophie Farmer. Increduli raggiungemmo l’ospedale dopo circa un ora di auto. Superammo i vari corridoi e mostrammo i distintivi diverse volte fino al raggiungimento dell’obitorio, dove la dottoressa Percy ci aspettava esibendo un sorrisetto malizioso.

lunedì 22 febbraio 2010

Punk dossier

Exokaine tale - Part 2

Quello che aspettavamo, per cominciare a vedere il quadro complessivo della situazione da un punto di vista più completo, si manifestò con la morte di Sophie Farmer.
Le autorità aeroportuali ci descrissero gli strani comportamenti antecedenti al coma e all'immediato decesso, e ipotizzammo subito, a causa dei sintomi descritti unici nel suo genere, alla morte per overdose di eptametilexocainammolo; tesi che venne confermata dall'autopsia. Enormi quantità del principio attivo erano presenti nel sangue, ma non si trovava una spiegazione su come queste si trovassero li; non era stata ingerita alcuna capsula gastro resistente, e tutto l'apparato digerente, dall'inizio alla fine, era libero dalla droga – stessa cosa si poteva dire dell'utero; qualche personaggio privo di scrupolo lo usava per contrabbandare ma non era questa la situazione.
Eravamo certi di trovarci di fronte al primo caso di corriere di exocaina, solo che non avevamo ne le prove ne idea di che sistema stessero usando per trafficarla. Contattammo l'aeroporto per richiedere una copia di tutti i nastri interni della sicurezza in modo da seguire Sophie passo passo – dalla discesa dell'aereo fino alla morte nel terminal – mentre, al medico legale che si occupò dell'autopsia, chiedemmo di effettuare una delicata osservazione del corpo della ragazza evidenziandoci ogni cosa, dalle operazioni effettuate in passato alle possibili malattie ereditarie. Quella punkettona dalle creste verdi doveva diventare un libro aperto.
La prima risposta arrivò dal medico. Dall'osservazione emersero una gigantesca quantità di dati inutili. La ragazza doveva avere qualche minimo problema d'udito, aveva un taglio sulla lingua, segni di percosse di diversi giorni prima sul torace, un accenno di artrite alle mani, braccia che sembravano non aver mai visto aghi e una gamba che non sembrava avessero incontrato altro, la stessa era di pochi millimetri più corta dell'altra, un operazione al ginocchio e intensa attività sessuale prima della morte (con diversi partner). Nulla di utile al fine delle indagini che, per un triste destino, fu anche la stessa risposta che demmo al nostro capo dipartimento quando ci chiese cosa trovammo sui nastri dell'aeroporto.
Anche le registrazioni erano completamente inutili. Sophie mostrava il suo fisico da modella mancata dal primo fotogramma all'ultimo senza mai uscire dai raggi di azione delle telecamere a circuito chiuso dell'aeroporto di Heathrow. Non c'era nemmeno un istante di assenza dove potevamo fantasticare su cosa avesse fatto; era tutto registrato. Usciva dall'Airbus con lo zaino sulle spalle, rinchiusa nel ritmo del suo iPod girava per i free shop scorrendo con lo sguardo gli scaffali carichi di tavolette di cioccolato alla ricerca di chissà quale varietà, saltava giù da un muretto dopo esserci rimasta seduta per un quarto d'ora a leggere una rivista di osé, passò qualche minuto fissando gli schermi luminosi di un telegiornale della BBC e cominciò a camminare lungo un corridoio quando di colpo si arrestò. Da quell'istante in poi sembrava essere sotto effetto della droga. Si portò le mani sul volto e sembrò lanciare un grido (non c'era audio) che la piegò a metà sul posto; cominciò ad indietreggiare e a poggiarsi sul muro distante un metro alla sua sinistra. Cominciò a barcollare verso avanti, camminando lentamente verso una meta conosciuta solo a lei; dopo una decina di passi si sedette su una panchina poco distante dove si sedette e assaporò l'ultimo piacere della sua vita prima del coma. I paramedici arrivarono un paio di minuti dopo e cercarono di rianimarla; la portarono in infermeria dove non poterono fare altro che constatarne il decesso.
A meno di tre mesi dopo l'irrisolvibile grattacapo che mi stava facendo perdere il sonno (sentivamo che la soluzione era a portata di mano, ma non eravamo in grado di comprendere cosa ci stava sfuggendo), le autorità di vigilanza dell'aeroporto di Heathrow ci contattarono per un nuovo decesso che sembrava implicare lo spaccio dell'eptametilexocainammolo.

venerdì 19 febbraio 2010

Exocaine

Exokaine tale - Part 1

I primi contatti con la exocaina avvennero durante un festino privato. Al contrario di oggi, all'epoca non esisteva ancora un reparto dedicato della narcotici per questa droga, quindi fu la polizia ad essere contattata dall'ambulanza che stava andando a prendere un ragazzo in overdose. La telefonata al pronto soccorso che aveva mosso le acque era stata fatta da uno sprovveduto, in quanto non aveva idea che sarebbe arrivata la narcotici a schedare ed interrogare tutti i presenti.
Come raggiungemmo il luogo dove era avvenuta la consumazione, ci rendemmo conto che avevamo pochissimo tempo per agire, in quanto il lussuoso appartamento nel quartiere “bene” di Notting Hills era stipato di ricchi figli di papà con cricche di amici al seguito, tutti bianchi come cenci e con in mano i cellulari con i quali stavano chiamando gli studi legali dei genitori, nella speranza che un avvocato arrivasse di volata per portarli via e nello stesso tempo depistare la stampa, poco gradita in un momento così delicato.
Cominciammo a fare delle domande riguardo il ragazzo che era stato portato via ed un muro di omertà comparve a frenare ogni nostro tentativo. Tutto ad un tratto il poveretto – che dall'ospedale ci comunicavano fosse morto durante il viaggio in ambulanza – sembrava diventato un appestato, additato da tutti come il pusher imbucato alla festa che aveva portato la droga senza che nessuno l'avesse chiesto – nonostante sembrasse palese il fatto che tutti avessero provato l'exocaina. Per il resto non sembrava avessero molta voglia di parlare senza un legale affianco.
Passammo a prendere in rassegna i nomi, a fotografare tutto, a raccogliere prove e a fare i tamponi antidroga. Di quest'ultima operazione non fummo capaci di raccogliere più di quattro campioni in quanto i primi legali spuntarono fuori e cominciarono a gridare all'abuso di potere, alle donazioni che erano state fatte al dipartimento, alle quintalate di scartoffie burocratiche sotto alla quale ci avrebbero seppellito e via dicendo. Non insistemmo oltre anche perché, avevamo tutto il necessario per capire le dinamiche della faccenda e ci eravamo resi conto di non essere a conoscenza del tipo sostanza consumata; cosa che rese i tamponi inutili. Tutti gli spocchiosi ragazzini se ne andarono accompagnati dai legali lasciandoci l'appartamento preso in affitto a nostra disposizione e non ci volle molto per trovare la droga che era stata nascosta alla bene-meglio per tutto l'appartamento. La demmo in mano al nostro laboratorio per avere un bel identikit della novità.
Dopo qualche giorno ci arrivarono le notizie sperate; emerse che la polvere di colore zafferano era un principio attivo mai visto in precedenza – poi scoprimmo che era chiamato eptametilexocainammolo, da qui il nome exocaina – e gli effetti sono riassumibili in questi tre: rilascio dei ricettori del piacere, potenziamento della vista notturna e allucinazione visiva. Niente di strano, ma se andassimo a descrivere in pratica cosa succede al consumatore vi assicuro che c'è da ricredersi in quanto crede di farsi la più bella scopata della sua vita con il partner dei suoi sogni. Allo stesso tempo Chi l'assumeva mostrava dopo un minuto dall'assunzione occhi dall'iride arrossata, capillari oculari gonfi e pulsanti e le pupille innaturalmente dilatate.
Come tutti quelli trovati nell'appartamento di Notting Hill, il campione consegnato per l'analisi era puro e a quanto pare i ragazzini la tagliavano sul momento. Il poveretto morto in ospedale sotto falso nome, per evitare che i facoltosi genitori avessero qualche ripercussione davanti all'opinione pubblica, non fu capace di regolarsi con la dose.
Per intervenire dovevamo conoscere i canali di smercio della droga, quindi facemmo partire i nostri informatori e agenti sotto copertura per cominciare ad indagare su chi era l'organizzazione dietro l'exocaina, chi la preparava, chi la smerciava, chi erano i clienti, quanto costava e dov'era diffusa. Il risultato: sembrava che non esistesse. Aveva una diffusione molto ridotta – quasi on demand – e raggiungeva il consumatore in tempi brevissimi, una purezza costante al 100% ed un prezzo fuori da ogni grazia. Gli unici che si potevano permettere questo sballo semi sintetico sembravano essere i figli di una ricca borghesia, come confermava per quel caso e tutti gli altri a venire.
Ci mettemmo in contatto con tutte le forze di vigilanza di porti, aeroporti e confine per avvisare della nuova minaccia da prendere in considerazione, ma a quanto pare, al contrario dei continui casi di morte per overdose, nessun corriere sembrava in circolazione.
In questo periodo, a sole diverse settimane dal primo episodio, ci trovammo fra le mani l'incredibile caso di Sophie Farmer, unanimemente soprannominato Punk Dossier e rimasto irrisolto fino all'incidente di oggi.

martedì 26 gennaio 2010

Commenti a caldo su Multwins.

Personal comment

Vorrei condividere con voi due cose riguardo al racconto appena giunto al termine.

La prima. La storia inizialmente era destinata ad un corto e come tale, aveva degli espedienti completamente diversi per spiegare parecchie cose della trama in cui qui ho inciampato parecchio. Il corto era puntato su una sorpresa finale e su un discorso ambiguo con un bellissimo sottofondo musicale di Beethoven "Chiaro di Luna". Qui ovviamene ho dovuto trovare altri espedienti.

La seconda cosa, comunque legata alla questione della migrazione da corto a racconto, riguarda il fatto che ho dovuto improvvisare un ampliamento di trama.
Trovo che non sia stato brillante come avrei voluto, ma prometto che il prossimo racconto sarà studiato in modo più accurato.

Ho due temi in testa, vedremo chi avrà la meglio.
Dopotutto, uno è armato di pistola, l'altro no, solo di un carillon.

Buona lettura.

The final test - End

Multwins - Part 5 Last

Senza rendersene conto, aveva ucciso il soggetto iniziale – quello che aveva dato il via a tutta quell'incredibile storia. La stessa persona, invaso chissà da quale triste convinzione, annotò tutto il necessario allo svolgimento di quell'attività di “pulizia” nelle prime pagine del libro che si portava appresso.
Proprio nelle prime righe scriveva “Io ho cominciato tutto questo, ma non sono certo che sarò io a terminarlo. Probabilmente non lo merito dopo tutto quello che ho fatto. Tu che hai fra le mani queste parole, siediti e leggi attentamente. Se sei arrivato a questo punto, vuol dire che io sono morto, e tu, mio “clone”, stai per prendere il mio posto”.
Nel libro raccontava di come, i suoi esperimenti visionari sulla fisica delle stringhe lo portarono a scoprire e a toccare il multiverso, composto da quarantadue universi paralleli, contaminandolo involontariamente con la sua presenza. Non credeva fosse una cosa grave fino a quando non si rese anche conto che in nessun universo parallelo esisteva la stessa persona; da qui l'esperimento effettuato sulle cavie da laboratorio.
Il risultato fu scioccante. La cavia che contaminava il multiverso, moriva quarantadue volte più velocemente di una cavia gemella, a meno che non si uccidevano le altre copie per riportare le anime indietro.
L'asterisco, che correlava la parola anima, indicava a fondo pagina che si trattava solo di un termine confidenziale per indicare qualcosa di molto più complicato e scientifico, e che non si trattava agli effetti della parte spirituale della persona. Per Angelo, che non era lo scienziato visionario che aveva fatto la scoperta, quelle strane sagome umanoidi e luccicanti che comparivano stampate sulla pellicola della speciale serie 600 Polaroid che si portava dietro erano davvero anime. Qualsiasi cosa avrebbero provato a raccontargli.
Angelo aveva paura che non fosse l'unico che stesse perpetrando quell'obbiettivo di pulizia. Non sarebbe stato capace di sopravvivere ad una sorpresa come quelle che lui serbava agli altri cloni. Era stato parecchio fortunato quella sera, e così non lo sarebbe mai più stato.
Smise infine di fissare assente il medicinale mentre ripensava al passato.
Armato di tutto punto si diresse verso il letto e, dopo essersi cambiato e aver indossato una semplice tuta, ci si sdraiò sopra.
Tirò su la manica sinistra quasi fino alla spalla. Con velocità e senza pensarci, riuscì a stringere forte il laccio emostatico con l'aiuto dei denti. Oramai l'aveva fatto parecchie volte.
Doveva essere veloce. La prima volta che assunse l'Orezemina, si iniettò l'anestetico con quasi un minuto di ritardo e la cosa gli costò parecchio. Sia mentalmente che fisicamente.
Anche se non prendessimo in considerazione la sensazione di milioni di aghi che affondavano con la violenza di una coltellata, ciascuno su ogni millimetro quadrato della pelle, contemporanea all'impressione che delle delle mani artigliate stessero facendo a pezzi il suo torace velocità, il suono delle sue urla, distorte dal cambio di piano, e quello che furono capaci di vedere i suoi occhi in quegli istanti, furono la cosa più terrorizzante.
Non voleva riprovarlo. Piuttosto avrebbe accettato la morte, con sollievo.
Si guardò il braccio destro. Sembrava un drogato. Le traccie di tutte le iniezioni di Propofol erano ancora li, belle in vista. Non sarebbe più stato capace di vestirsi in maniche corte in pubblico per il resto della vita.
Strinse il pugno a ripetizione per una dozzina di volte bloccava la capsula di Orezemina tra i denti e preparava la siringa sulla vena.
Quando era il braccio assunse una colorazione quasi scarlatta, inserì l'ago nella pelle, alla ricerca di un pezzo di vena sana. Tirò leggermente lo stantuffo della siringa per vedere se aveva preso correttamente la mira. Il mischiarsi rapido del sangue con l'anestetico gli diede la conferma che stava cercando.
Inghiottì la pillola e premette lo stantuffo. Terminata la lenta corsa del pistoncino che sembrava infinita, estrasse la siringa con rapidità e scagliò a terra. Prese il cerotto pronto sul comodino e lo sbatté sulla ferita. Respirò a bocca aperta a fondo un paio di volte in piena velocità mentre sentiva i battiti del cuore che stavano cominciando a salire vorticosamente.
Sfilò il laccio emostatico con furia e attese.
Come una fiamma che risale piano, il Propofol bruciò la sua lucidità un centimetro alla volta, facendolo sprofondare in un sonno senza sogni, ancora una volta.

lunedì 25 gennaio 2010

The final test - Part 1

Multwins - Part 4

La visione del suo appartamento dove l'attendeva la terribile procedura, lo riportò alla cruda realtà in un colpo solo. Rapido e violento. Tutto quello di cui si era dimenticato, guardando il paesaggio e distraendosi con la musica, era di nuovo un peso che gli gravava sulle spalle, e ad ogni volta questo diventava sempre più pesante.
Il rumore della porta di casa che si chiudeva dietro di lui e che sarebbe dovuto essere sinonimo di un gradevole ritorno, veniva da lui sempre più associata al rumore di una cella carceraria.
Si recò in bagno. Lasciò il borsone per terra ed estrasse il libro. Adesso, accanto alla foto scattata la mattina, poteva affiancare quella scattata mezz'ora prima. Fissava l'istantanea con le lacrime agli occhi. Continuava a non crederci, ma questa “realtà” doveva avere ragione in qualche modo a lui incomprensibile.
Dove non c'era assolutamente niente di più che un muro per un occhio umano, la foto era stata capace di catturare l'essenza di ciò che cercava e cacciava con così tanta paura.
L'anima.
Un altra, intrappolata contro la sua volontà e nella totale incredulità dell'evento, nel libro che si era ritrovato costretto a riempire per paura. Era arrivato solo a metà e non sapeva se sarebbe stato capace di riempire tutte e quarantadue le facciate.
Ripensò a quel momento, in cui si trovò lui, faccia a faccia con l'assassino. Era stata una notte difficile, tra incubi, indigestione e alcool. Era in una condizione pietosa ed era tutt'altro che lucido; incapace di rendersi conto se i conati di vomito, le corse al bagno, i quattro Muppet giganteschi che lo picchiavano senza tregua fossero sogni o realtà. A ripensarci adesso era quasi certo che i quattro pupazzi capitanati da un assatanato Kermit fossero un sogno, ma in quel momento non era sicuro di niente. Anche quando un seccatore armato di Walter PPK silenziata gli bussò alla porta per assassinarlo, non fu capace di distinguere la realtà dal sogno. Carico di rabbia per le percosse dei Muppet, sfruttò l'occasione per spaccare il naso al tizio, disarmarlo e sparagli un paio di colpi addosso. Non fece la faccia idiota di tutti gli altri. Non in quel momento per lo meno. Quel volto idiota comparve la mattina dopo, quando capì che quel corpo a terra non era un sogno.
Trascinò dentro il corpo e il borsone che si portava appresso, e cominciò a perquisirlo.
Ci volle qualche ora perché la situazione gli fosse chiara e nonostante tutto continuava a non credere a ciò che si trovava di fronte.
Non voleva ripensare a tutto quello che accadde, avrebbe peggiorato la sua già flebile motivazione. Girò pagina e poggiò il libro sul lavello del bagno. I fogli erano bianchi e candidi.
Alzò la tavoletta per una veloce pisciata. Verde. Di nuovo. Gli effetti collaterali del Propofol cominciavano ad essere troppo presenti. Doveva rallentare il ritmo, non aveva intenzione di lasciarci le penne per quello dopo tutta quella fatica.
Scosse la testa e si girò verso il borsone. Prese: Orezemina, Propofol e un laccio emostatico. Guardò la confezione dell'Orezemina. Doveva solo ingerire una di quelle pillole. “Una sciocchezza” mormorò fra sé e sé, mentre gli tornarono in mente le parole del libro.
L'Orezemina, se assunta da sola, provoca una morte certa e dolorosa. L'unico modo per sopravvivere e godere dell'effetto finale, è superare il momento cruciale con l'aiuto di un anestetico. A causa dei problemi di dipendenza dati dai barbiturici, la mia scelta è ricaduta sulle nuovissime benzodiazepine. Molto più tollerabili dall'organismo. L'iniezione di anestetico deve essere fatta contemporaneamente con l'assunzione del farmaco transitivo”.
Si era premunito di tutto. Le dosi dovevano essere state quarantadue per ogni medicinale. Ma quando toccò a lui, erano rimaste solo trentatré.
Tornò a pensare al giorno nel quale cominciò questa sua nuova esistenza. All'errore di aver fatto passare solo un minuto dall'assunzione dell'Orazemina e l'iniezione dell'anestetico - era quasi morto dal dolore; al fatto di aver dovuto cercare quell'anima con diverse ore di ritardo rispetto ai 4 minuti canonici necessari per farla uscire dal corpo; al momento in cui realizzo che il cadavere che giaceva sul pianerottolo di casa prima, e nel suo soggiorno poi, quell'uomo che gli stava per puntare la pistola addosso, e che lo avrebbe ucciso se solo avesse potuto, non era altro che sé stesso.

giovedì 14 gennaio 2010

Say "cheese"

Multwins - Part 3

La vittima rimase imbambolata a fissare la pistola puntata contro il suo viso, mentre lasciava la presa dalla porta.
Angelo sparò due colpi a sangue freddo, indifferente di fronte al risultato ottenuto.
Raccolse il borsone da terra ed entrò nell'appartamento, chiudendosi la porta alle spalle. Superato il corpo che giaceva esanime a terra, lanciò il borsone sul divano e prese la colazione abbandonata sul tavolo. Non aveva ancora mangiato e aveva fame.
Appena si sedette sul divano, gli venne in mente la piccola sveglia che aspettava quieta tra i suoi effetti personali. La estrasse dalla borsa accanto a lui e impostò il timer a quattro minuti.
Spense la televisione e per dedicarsi ai quei favolosi biscotti – i suoi preferiti – ma il ticchettio della sveglia non gli diede tregua. Lo scandire ritmico di quei quattro minuti, erano la seconda più grande sfida che doveva affrontare regolarmente. Quel flebile suono ripetitivo era capace di far riaffiorare pensieri che credeva di aver seppellito sufficientemente in profondità ma che regolarmente riuscivano a scavarsi una strada nella sua mente, tornando ad assaltare la sua già debole convinzione in ciò che stava attuando.
Scosse la testa, seccato e lasciò perdere la colazione. Non ce la faceva; lo stomaco era ormai chiuso e la fame, che giustamente gli aveva ricordato di essere a digiuno, scomparve.
Prese dal borsone la seconda polaroid. Questo particolare modello della serie 600, oltre ad una strana modifica sulla lente dell'ottica, era fornito di un tipo di pellicola unica nel suo genere – capace di catturare qualcosa di impercettibile per l'occhio umano.
Angelo cercò di sfruttare proficuamente i minuti rimanenti riposandosi sul divano. Rilassò i muscoli della schiena, allungò le gambe e chiuse gli occhi. La cosa avrebbe anche funzionato bene se non fosse stato per il debole rumore metallico emesso dalla sveglia. Ogni scatto, scandito con diligenza da quella piccola trappola di ottone, non faceva altro che aumentare la tensione in lui. Sentiva il suo respiro diventare sempre più presente e rumoroso; il suo battito cardiaco aumentava la frequenza e tornava a battergli in testa; la sudorazione fredda ricominciava, accompagnata da brividi lungo la colonna vertebrale.
Passati tre minuti di febbrile lotta con se stesso, il suono della sveglia fu – alle sue orecchie – una soave melodia di liberazione. Scattò in piedi e si girò verso il cadavere, inquadrò l'area sopra di esso come se la vittima fosse stata in posizione eretta, e scattò la foto.
L'istantanea fece subito capolino dai meccanismi della macchina. La prese in mano e attese, questa volta con impazienza, il risultato. Alla sua vista, sospirò profondamente.
Finito il lavoro, chiuse la porta dietro di lui. La foto era stata scattata e aveva preso quello che doveva portare via. Un nuovo triste tassello di una collezione che non avrebbe mai voluto avere in custodia.
Nell'uscire non poté evitare di cadere con l'occhio sul cadavere. Sentiva dentro di se che la sua motivazione quasi mancava, tanto stava logorandosi colpo dopo colpo, cadavere dopo cadavere. Cosa lo stava costringendo a comportarsi così? Il fatto che potesse essere lui il prossimo? Ma come poteva essere sicuro che gli altri avrebbero agito? Dopotutto successe solo una volta.
Gli tornò in mente l'espressione che fece prima di morire. Rifletté “Tutti quanti muoiono con la stessa stupida espressione sul volto. Tutti”. Possibile che avesse fatto anche lui la stessa faccia incredula?
La semplice risposta che cercava, affiorò tra i suoi pensieri mentre camminava verso l'auto.
Paura.
Aveva più paura di fermarsi che di continuare. Questa era l'ultima cosa che lo mandava avanti.
Salì in macchina e partì alla volta del suo appartamento con la mente focalizzata alla terribile sfida, la più impegnativa, che lo aspettava tornato al suo alloggio: la procedura alla quale si sarebbe dovuto sottoporre per l'ennesima volta.
“Goditi questa mezz'ora di pace che ti rimane Angelo”, si disse, mentre guardava il paesaggio cercando un po' di distrazione.

mercoledì 13 gennaio 2010

Modifiche

Personal comment

Intanto, anche se palesemente in ritardo, porgo a tutti i miei auguri di buon Natale e buon anno nuovo.

Ho rivisto il racconto di Angelo (parte 1 - parte 2), che ho intenzione di finire per questa settimana.
Spero che questo nuovo anno mi convinca a perseguire con più fermezza il mio obbiettivo.

Vedremo.

Per il resto,
Buona lettura.