sabato 31 dicembre 2011

Bookmark

Prologo sul personaggio

Marco si accorse del suo dono all'età della ragione, in quel momento nel quale ci si rende conto di “essere” che nel suo caso coincideva con la terza settimana dell'università. Si ritrovò a frequentare un istituito parecchio lontano da casa, dove non conosceva nessuno, eppure non gli servì più di qualche settimana per divenire uno dei personaggi più popolari non solo del proprio corso, anche se lui non aveva fatto nulla di tale da meritarsi tale fama. Fu in quel momento che cominciò a credere che potesse esserci qualcosa di particolare nella sua persona.
Analizzò la sua situazione rispetto a quella di altri compagni di corso e si rese conto come tutti si fidavano istintivamente di lui, senza porre condizioni o avere alcuna preoccupazione. Sembrava quasi che bastasse chiedere per avere ogni cosa a propria disposizione.
Fece il primo passo per vedere fin dove sarebbe potuto arrivare ed invitò Lucia, la più bella ragazza delle nuove matricole, ad uscire con lui la sera stessa. Lei accettò senza esitazioni, quasi non stesse aspettando altro da giorni.
Quella sera lei sembrò disposta ad accettare ogni cosa proposta da Marco senza quasi rifletterci, ma lui non volle forzare quella che poteva essere più fortuna che altro ed evitò di superare una pericolosa soglia di non ritorno. In fondo era sempre stato considerato di bell'aspetto, quindi avrebbe cercato la conferma a quella sua strana dote in qualche altra situazione.
Con il passare delle settimane fece diversi tentativi con tante altre ragazze, sia dell'università che non, riuscendo a portarsele a letto ogni volta che lui voleva. Scoprì con stupore che anche in quella situazione bastava chiedere perché tutto fosse a sua disposizione.
Ma non era ancora abbastanza. Così aveva assodato quanto tutto andasse liscio fino a quando si restava all'interno delle normali convenzioni sociali, però voleva accertarsi di come questo suo 'potere' funzionasse in ogni situazione e con qualunque soggetto; decise quindi di sfidarle quelle convenzioni. Il prossimo soggetto delle sue sperimentazioni sarebbero stati degli uomini.
Cominciò ad uscire con un giro di amici del corso e si rese conto come riusciva a incastrarli in situazioni imbarazzanti con una semplicità unica, facendo passare le cosa sempre come scherzi e facendo fare a tutti ‒ compresi i soggetti messi alla berlina ‒ grasse risate. La vera consacrazione accadde quando riuscì a convincere Gabriele, che in quel periodo frequentava Lucia, ad avere un rapporto con lui. Dopo l'assenso del ragazzo Marco scoppiò a ridere facendo passare la proposta per uno dei suoi soliti scherzi; la risata coinvolse anche Gabriele, ma gli si leggeva in faccia come stesse dissimulando una delusione con quella reazione.
Marco tirò le conclusioni dopo un paio di mesi di esperimenti. Gli sarebbe bastato rimanere risoluto, gentile e mostrare il proprio sorriso affinché le persone si fidassero di lui e accettassero di buon grado le sue proposte, fino a quando le richieste rimangono nella sfera dell'etica delle persone; per quanto potesse essere persuasivo, c'erano dei limiti oltre al quale delle persone non potevano arrivare in quanto non sarebbero state più loro stesse. Era un persuasore, non un ipnotizzatore.
E ad oggi il suo lavoro si basa proprio su quello.
Di bell'aspetto, affabile, dai modi garbati e dalla parlantina pronta e sciolta, ha molti clienti fissi. È un venditore e, a tutti gli effetti, lo fa a modo suo e come nessun altro sarebbe capace di fare. È conosciuto come Bookmark, ma non fatevi ingannare dal nome; non si tratta di segnalibri. Lui è il Mark dei libri: questo è il nome della sua merce nell'ambiente ed essa va cacciata di notte, nei locali affollati, che siano per bene o meno. Deve solo rispettare la volontà del cliente, ma spesso in due o tre notti riesce a trovarla; poi basta il tocco della sua magia: sorriso, risolutezza e gentilezza. Se la porta a casa per una notte e la mattina dopo la consegna o a domicilio o ad un indirizzo concordato.
Guardatelo. Questa mattina incontra i due medici sul loro furgone anonimo. Mostra il suo sorriso affabile e li conduce al portabagagli della sua berlina. Lo apre e gli mostra la merce. I medici sono contenti, gli fanno domande, gli chiedono se aveva notato qualcosa di strano quando l'aveva presa, se era tutto in ordine o se aveva qualche difetto evidente. «È perfetta» risponde risoluto. I medici sono entusiasti e sollevano in due la ragazza seminuda dal retro della vettura di Mark caricandola sul furgone. In meno di cinque ore, tutti gli organi saranno espiantati e pronti per essere immessi sul mercato nero mentre la carne finirà probabilmente a qualche pervertito o a qualche cannibale. Pagano molto quei bastardi e Marco è felice, lavora poco e guadagna tanto, sfruttando il suo dono.

mercoledì 30 novembre 2011

Mele, mediatori e segugi.

Sfida di trenta minuti

L'uomo era seduto sul letto della sua stanza e stava scrutando ogni millimetro quadrato della mela che aveva poggiato sul comodino da più di quindici minuti. L'aveva guardata e riguardata da ogni angolazione possibile, valutandone ogni imperfezione o puntino colorato, ed era riuscito finalmente a convincersi; era il miglior diversivo sul quale poteva contare in quel momento. Le staccò gli occhi di dosso e guardò l'orologio: 19:41. Estrasse il cellulare dai pantaloni del vestito e lasciò andare un profondo sospiro notando come nessun messaggio o chiamata persa era in segreteria. “Merda, un altro giorno buttato via.” pensò. Fissò la parete beige davanti a sé per qualche minuto ancora, poi si alzò e lasciò la camera in direzione dell'ascensore dell'albergo. Avrebbe passato un'altra serata in compagnia del barista, o di qualche altro cliente, per cercare di ammazzare il tempo fino al giorno successivo. C'erano stati fin troppi rinvii perché l'affare si sbloccasse quella notte e non aveva intenzione di pensare troppo alla faccenda fino all'indomani, accontentandosi di un diversivo qualsiasi per passare la serata, anche una sciocchezza.
In meno di un minuto era di fronte alla soglia della pesante doppia porta di vetro satinato che separava la hall dal bar.
Il locale era una calda mescolanza di toni rossi e legno scuro, con diversi tavoli disposti per il salone e un lungo bancone circondato dai classici sgabelli alti.
Si diresse a quello più vicino al barista che lo fissò con aria malinconica.
«Non dirmelo.»
«E allora non te lo dico.»
Si guardarono negli occhi per qualche secondo.
«Ancora niente?»
«A quanto pare mi toccherà stare qui per una sesta giornata», guardai lo spremiagrumi dietro di lui, «mi faresti un'altra spremuta di arancia, per favore?»
«Certamente», il barista si girò e cominciò a tagliare delle arance, «ma perché non lasci stare quello che ti hanno detto e non esci a farti un giro per la città? C'è stato un bel sole oggi e ti stai perdendo delle giornate fantastiche.»
«Vorrei... ma se poi mi chiamano, sai... per la legge di Murphy...».
Il barista ridacchiò «Comunque, per quanto possa sembrarti noioso, almeno devi solo aspettare. Sono certo che potrebbe andarti peggio.»
«Già, hai ragione.»
Invece no, aveva torto. Il barista non aveva idea di come l'attesa fosse la cosa peggiore che gli potesse capitare nel suo lavoro; era il terrore sacro di ogni bravo mediatore. Spesso quello stallo significava che una delle due parti della transizione voleva prendere tempo per poter mettere un segugio sulle traccie della merce desiderata, con il risultato di mettere nei guai il povero mediatore con il suo datore di lavoro in quanto responsabile di gestire la delicata transizione per loro (legale o meno che fosse). Più uno era bravo e più i materiali trattati erano pericolosi o delicati, e più i materiali erano di valore alto e più grossa era la penale da pagare in caso di errore. Lui era il migliore nel suo campo e quindi trafficava solo la merce a più alto rischio. In questo caso il prototipo di un cervello biologico interfacciabile con i sistemi informatici sviluppato da una delle più grandi società di bioingengeria del mondo, la eVolve. Per lo scambio il carico era stato nascosto all'interno di una mela. Dall'altra parte c'era un colosso di servizi online, la World Network Servicies, che sembrava volere il carico ma non sembrava disposta a trovare una soluzione per i fondi neri da girare in un conto off-shore per concludere la transizione.
Come usuale, lui aveva firmato un contratto che comprendeva delle penali alquanto bizzarre, in confronto al quale la morte sarebbe stata un'opzione preferibile.
Il barista gli consegnò la spremuta e mugugnando un «Scusami un secondo» se ne andò a servire una coppietta appena entrata nel locale. Il mediatore sollevò il bicchiere e lo squadrò un paio di secondi. Prima che potesse poggiarci le labbra sopra una affascinante ragazza dai corti capelli biondi esclamò «Un brindisi ai lavori di merda?»
Lui si girò e vide che una ragazza vestita elegante a due sgabelli di distanza che lo fissava con aria complice con un paio di occhi scuri come cioccolato fondente.
«Perché no?»
Lei si avvicinò e fece tintinnare il proprio bicchiere con quello del mediatore.
«Ai lavori di merda!», esclamarono insieme.
Lei batté il bicchiere sul tavolo e si scolò un cosmopolitan mentre lui finiva in un fiato la terza spremuta della giornata.
«Scusami», cominciò lei, «ma non ho potuto fare a meno di sentire dei tuoi dispiaceri sul lavoro e mi sono detta che valeva la pena fare un brindisi assieme per festeggiare una lamentela comune.»
«Ammetto di essere stato un po' ipocrita, in fondo me lo sono scelto io questo lavoro.»
«Anche il fatto che non puoi uscire dall'albergo lo hai scelto tu?»
«No, è solo un'antipatica clausola del contratto.»
«Spero che ti paghino abbastanza.»
Lui si lasciò scappare una risatina «Fidati, con questo scherzetto metterò via una cifra da capogiro.»
Lei lo guardò negli occhi con uno sguardo sornione.
«Senti un po' uomo dallo stipendio da capogiro», lei abbasso la voce e si fece un po' più vicina «dato che mi trovo anche io a dover rimanere qua fino a fine lavoro, avrei per la mente una cosa divertente che si può fare qua in albergo, io e te... non so se... sai, per far passare l'attesa.»
Lui quasi non riusciva a crederci, doveva essere uno scherzo. Poteva sul serio essere così facile? Si guardò attorno. A quanto pareva quella era la sua occasione d'oro e l'avrebbe baciata all'istante se solo non fosse stato un rischio troppo grosso.
Le sorrise, «Sei proprio quello che cercavo per finire in bellezza questo lavoro.»
«Uh, esagerato. Che numero di camera hai?»
«Vieni con me, te la mostro.»
Assieme si alzarono e si diressero verso l'uscita. A qualche metro dalla porta, il mediatore si girò verso il barista che gli fece l'occhiolino e scandendogli solo con le labbra la frase “Buona fortuna”. Presero l'ascensore e arrivarono al piano. Lungo il corridoio, lei gli poggiò la testa a cavallo tra il collo e la spalla mentre lui allungo una mano attorno alla vita, sotto la giacchetta del tailleur, con una delicatezza unica al punto che lei non se ne accorse.
“Non ci posso credere” pensò lui.
Mentre l'uomo armeggiava con il portafoglio in cerca della tessera-chiave della porta, la ragazza apri la borsetta e cominciò ad armeggiare bofonchiando qualcosa come “contraccettivi”. Lui fece finta di ignorare il click metallico e il sibilo elettrico simile ad un flash che si caricava ‒ riuscendo a malapena a soffocare un sorriso ‒ e appena le diede le spalle per entrare in camera un colpo di taser gli venne scaricato sulla schiena. Neanche il tempo di toccare terra che gli spruzzò dello spray al pepe sugli occhi.
La sentì entrare di corsa dentro la stanza per dopo uscire in velocità prendendosi anche il tempo di assestargli un calcio nel costato e dargli dello stronzo.
“Tipina fine, c'era da aspettarselo”
Rimase a terra per circa un minuto, poi chiuse la porta con il chiavistello dietro di sé e cercò il letto a tastoni, ci si sedette sopra e, tra le lacrime e i dolori, notò come la mela non fosse più al suo posto.
“Cazzo, non ci posso credere...”
Estrasse da una tasca della giacca il portadocumenti di lei, preso di nascosto mentre camminavano lungo il corridoio. Dentro aveva la carta di identità e una tessera che la identificava come dipendente esterna della WNS.
“Sul serio... non ci posso credere!”
Prese il cellulare dalla tasca e chiamò il suo contatto di riferimento della eVolve.
«Che succede?»
«Un segugio del cliente, sono bruciato», nel mentre aprì l'antina del comodino.
«La merce!?»
Diede un'occhiata allo stipetto e vide la mela contenente il cervello ancora al suo posto. Avrebbe cominciato a ridere sguaiatamente se solo il torace non gli avesse fatto così male; glì uscì solo un grugnito incomprensibile.
«È ancora con me. Pensa che era una novellina con dei metodi così ovvi da non crederci. Ci è cascata con tutte le scarpe e si è portata via un fac-simile.»
«Cristoddio grazie al cielo, mi hai fatto sudare freddo... tu stai bene?»
«Un po' ammaccato ma vivo.»
«Bene, chiuditi in camera che ti veniamo a prendere immediatamente. Poi liquideremo subito il contratto come da accordo. Quei bastardi...»
«Sai che saranno un mucchio di soldi, vero?»
«Sì, ci vorrà un po' ma te li sei meritati.»
«Grazie, a dopo.»
Il mediatore chiuse il telefono e sospirò. “Almeno non ho buttato via tutto il giorno”.

venerdì 28 ottobre 2011

Shopping rules

Appunto per racconto cyberpunk 3/3

La seconda generazione può apparirti costosa, ma è l’unica soluzione che hai per entrare nel professionismo ad un prezzo ragionevole. Hai bisogno di tanta attrezzatura, tutti quei cavi che escono dalla spina dorsale devono andare a finire in un processore, no? Tutti questi poi devono lavorare in perfetta sincronia e via dicendo… comunque per prima cosa: l’operazione per l’installazione. Di per sé non è molto costosa, ma – come per tutte – devi trovare un medico bravo; nessuno vuole un macellaio che pasticci con la propria spina dorsale per poi risvegliarsi paraplegico, non ti pare? Poi, per quanto riguarda l’hardware… gli spinotti non costano molto, anche quelli buoni. Quelli davvero eccellenti, come tutto, costano, ma di buona qualità ormai ne è pieno il mercato. Di centraline sincronizzate trovi ottimi prodotti anche di seconda mano e questo ti aiuta a salvare una valanga soldi. Di solito i componenti appartenuti ad un navigatore fritto li svendono a poco. Sai com'è, leggende metropolitane; dicono che tutta la componentistica venduta dalla linea di un navigatore morto deve avere per forza un difetto, altrimenti non sarebbe morto; quindi tutti le danno per difettose e non costano un cazzo. Io ti confesso: di navigatori idioti alla ricerca di una rapida ascesa nell’olimpo della rete ce ne sono a migliaia. Quelli crepano perché sono deficienti non per colpa di un difetto nell'hardware. Quindi prendile pure tranquillamente. Adesso trovi anche un sacco di nuovi prodotti per la seconda generazione se hai soldi da buttare. Molte ditte di componentistica, appena uscita la quarta, hanno capito che la seconda avrebbe avuto una nuova giovinezza e si sono dati sotto a fare novità. Per esempio, ora la Onkyo che vende una multi centralina corale dove attacchi tutti gli spinotti, senza doverti più preoccupare per la sincronia. Se vuoi fare una cosa in economia però, e meglio che ci dai sotto con la roba dei morti. Ehi, attento però… discorso a parte per la centralina cervicale. Quella va presa vergine, da uno di fiducia. Non farti rifilare roba di un morto. Rischi la sindrome dell’olandese volante. Cosa ridi, niente cazzate! Un mio amico diceva di vedere il fantasma del navigatore morto in giro per la rete… ha perso la salute mentale e non riesce più a collegarsi, rischia di andare in paranoia. Girano delle voci... dicono che qualcosa dell’esistenza di un navigatore resta nella centralina… credimi: non rischiare. Altri vanno alla caccia delle cervicali dei grandi morti ‒ o anche vivi eh? ‒ credono che gli possano portare fortuna o aiutarli durante le loro navigazioni ma secondo me rischiano per niente... comunque, da cosa vuoi partire?

venerdì 30 settembre 2011

Unexpected tie

Cinical: Dialogue test - Part 2

La mia vecchia Nissan Sunny era parcheggiata in fondo alla strada dove si trovava il Panama’s Court. Anche se si trattava di una delle versioni più accattivanti uscite nel 1992 – un “milleotto” a iniezione – era quanto di più anonimo si potesse sperare, merito anche del trattamento speciale che le era stato riservato. Fuori la triste tonalità della carrozzeria ricordava solo lontanamente il rosso che era stato al momento dell’uscita dalla fabbrica e i paraurti, da un bel nero lucido, erano divenuti grigi opachi; a completare l’opera cenni di ruggine sparsi e righe di sporco a riempire ogni fenditura che acqua potesse raggiungere. All’interno, i sedili erano ricoperti di un tessuto a trama incrociata strappato qua e là che mostravano l’imbottitura gialla in gomma piuma, la plastica del cruscotto era crepata nel centro e la corona del volante era lucida, a testimoniare le migliaia di ore di guida sopportate. Sotto quella scorza logora però si nascondeva una meccanica perfetta, come fosse appena uscita dal concessionario. Tutto questo trattamento la rendeva difficile da notare; un vero toccasana per il mio lavoro.
Mi lasciai andare sul sedile di guida sfondato e passai un paio di minuti a sfogliare le carte che mi aveva consegnato Anna per studiare l’obiettivo, saltando con lo sguardo qua e là per farmi un veloce quadro della situazione prima di partire: Arnoldo Benítez Rodrígez, 36 anni, lavoratore saltuario da quando ne aveva 17, diversi fermi per ubriachezza molesta e sfrattato parecchie volte negli ultimi anni a causa di reiterati ritardi nel pagare l'affitto ‒ le volte in cui era capace di saldarlo. Così dipinto sembrava solo un buono a nulla finito in mezzo per caso, ma qualcuno con una lingua troppo lunga e un portafoglio troppo vuoto aveva avuto un’opinione parecchio diversa in merito. Se la soffiata fosse stata completamente attendibile, e quindi aveva a che fare in qualche modo con il colpo all'assicurazione, doveva essere stato indicato come disposto a collaborare da qualcuno nel sottobosco criminale locale ‒ probabilmente aveva qualche amico in qualche giro non troppo legale ‒ però non riuscivo a trovare nemmeno un piccolo indizio che confermasse tale ipotesi.
Sfogliai il resoconto bancario con più attenzione, quel genere di persone non collabora con il crimine per la gloria e lì doveva esserci per forza qualcosa. Due settimane fa aveva versato in banca di persona una somma di denaro in contanti molto più consistente della sua paga attuale, per poi pagare con assegno una buona fetta di quella somma ad un certo Villaruz, anche se la cosa si era ripetuta in passato con una cadenza quasi mensile. Infatti preparava un assegno con circa un sesto di quella somma allo stesso uomo da quasi otto mesi. Doveva trattarsi dell'affitto e da uno che ha l'abitudine di farsi sfrattare spesso, aver anticipato sei mesi di affitto al padrone di casa era il genere di anomalia che stavo cercando.
La soffiata poteva quasi risultare credibile ‒ Maurice, il mio collega, ci credeva ciecamente ‒ ma io avevo ancora dubbi sul suo coinvolgimento e non mi sarei convinto fino ad una chiacchierata di persona con Rodrìgez.
Era arrivato il momento per un aggiornamento reciproco. Presi il cellulare e attivai la chiamata rapida.
«Eccoti! Allora come è andata con Anna? Te l’ha data una mano
«Sì certo – scusami se non rido – e già che c’ero mi sono anche fatto fare uno sconto, così alla fine di questa corsa ci facciamo una bell—»
«Aspetta, in cambio di cosa? Quella non da niente per niente. Non te la sarai mica portata a letto?»
«Non è il mio tipo», volevo evitare di tornare su quel discorso.
«Raccontala ad un altro, lei sarebbe capace di dare via un braccio per te se potesse»
Lasciai andare un profondo sospiro «Gli ho solo detto che poteva centrare con l’assicurazione»
«Eddai cazzo! Le hai detto tutto! Quella si rivende ogni cosa che le passa sotto mano. Piuttosto portatela a letto la prossima volta. Dimmi, che dati ti ha fornito? C'è qualcosa di valido?»
«Sembrerebbe di sì... i dati sono i soliti: anagrafica, stato civile, situazione economica, resoconti e trasferimenti della carta di credito…»
«Bah, come sempre un lavoro fatto coi piedi. Almeno hai l'indirizzo?»
«Certo, Santiago de Veraguas»
«Sicuro che sia ancora lì?»
«L'altro ieri ha pagato l'affitto per sei mesi, una bella stranezza per uno sfrattato cronico... potrebbe essere una buona pista»
«Direi... certo che ti tocca un bel viaggio in macchina»
«Guarda, non farmici pensare», stiracchiai la schiena sul sedile «Mi si prospettano almeno tre ore di rottura di palle. Vuoi raggiungermi là?»
«Sì, appena ho finito qui»
«A proposito hai novità?»
«Non ancora, ma forse ho una pista su chi potrebbe aver fatto il lavoro»
«Sei ancora a Panama?»
«Sì...», lasciò passare qualche secondo per poi sbuffare «Senti te lo dico chiaro e tondo. Lei adesso ha gli stessi dati che hai tu e sono certo che li avrà già rivenduti a qualcuno interessato ai pettegolezzi sul caso. Non mi sarei giocato l’esclusiva per 200 dollari»
«Non sei un po' troppo sospettoso? Ci lavoro da parecchio e no—»
«È perché continua a chiamarti amore, vero?»
«Ooh, vaffanculo! Senti, la prossima volta ci vai tu. Meglio?»
«Eddai cazzo, ma quanto sei permaloso!»
«Ahh, fottiti»
«Anche tu»
Chiudemmo la comunicazione in contemporanea. Girai la chiave nel quadro ed accesi il motore, provando un certo sollievo nel tornare ad avere il controllo del mezzo; viaggiare con Anna non era una cosa per deboli di cuore. Presi in direzione dello stradone per Panama, per poi dirottare sulla panamericana in direzione di  Santiago de Veraguas.
Accesi la radio fin da subito per non pensare alle cazzate di Maurice. Solo una volta mi spinsi troppo in là con la colombiana durante un lavoro molto complesso; fui molto vicino a portarmela a letto e finii con lo scottarmi, ma sono uno che impara. Se sopravvivo, sbaglio solo una volta e Maurice questo lo sa. Dopo pochi minuti, i caldi ritmi latini alla radio riuscirono a trasportare la mia mente da un'altra parte.
Dopo le tre ore di viaggio previste parcheggiai la macchina nella periferia sud della città, vicino ad una palazzina a quattro piani che corrispondeva all'indirizzo e al numero civico di Rodrígez. L'edificio era una costruzione squadrata di architettura popolare ‒ con tanto di cortile interno ‒ che avrebbe avuto bisogno di una bella rinfrescata sia nella facciata che negli allacciamenti delle infrastrutture; numerosi grovigli di cavi si snodavano tra i pali e gli split dei condizionatori appesi fuori dalle finestre.
Imprecai tra me e me. Nelle carte e nel resoconto bancario non c'era alcuna indicazione di quale fosse il numero dell'appartamento ed ero certo che controllare tutti i citofoni del palazzo sarebbe stato sia inutile che troppo sospetto. Scesi dall'auto e superai la porta d'ingresso. Dentro il piccolo atrio si affacciava un gabbiotto dove un grosso signore di mezza età, con un tipico sombrero pintado in testa, alzò la gli occhi per squadrarmi.
Poteva essere il proprietario, quindi misi in campo la faccia più affidabile di cui ero provvisto.
«Buon giorno Sigor...», feci un cenno della mano verso di lui.
«Villaruz», rispose scorbutico.
«Villaruz...», allargai un sorriso e completai la frase precedente «sto cercando un suo affittuario, un certo Rodrígez. Può aiutarmi?»
«Mai sentito nominare»
«So che abita qui e...»
«Senta! Se vuole può controllare anche tutti i libri contabili», puntò il pollice verso la porta dietro  di lui, «non c'è alcun Rodrígez!»
«Quindi l'assegno di due giorni fa, con sei mesi di affitto, era in realtà il regalo di un anonimo spasimante? Oh, scusi... devo averle rovinato la sorpresa.»
Mi fissò allibito «Cosa?»
«Mi dica a che numero lo trovo», mostrai un sorriso tagliente.
Balbettò qualcosa che sembrava un 311
«Gentilissimo»
«Se-senta... almeno lei eviti di fare lo... “schiamazzo” del suo collega», d'un tratto era diventato dolce come un agnellino.
«Collega?»
«S-sì... ho mandato su mezz'ora fa un asiatico e ho ricevuto delle chiamate preoccupate dai vicini... lei cerchi di essere più... gentile? V-va bene?»
«Certo», cominciai a sospettare di essere arrivato in ritardo.
Uscii nel cortile e salii le scale fino al terzo piano. Raggiunta la porta 311, ci poggiai l'orecchio sopra per auscultare l'interno. Non si sentiva nulla. Portai la mano destra dentro la giacca e presi la piccola Walter PPK dalla fondina ascellare mentre con la sinistra abbassai la maniglia. Era chiusa a chiave. Mi arrischiai a fare una mossa azzardata e bussai, lasciando passare un minuto. Non ebbi risposta. Osservai gli infissi della porta. Sembravano vecchi quanto il palazzo, avrebbero ceduto con un po' di forza. Mi guardai attorno e assestai un calcio all'altezza della serratura. La porta si spalancò.
Il piccolo corridoio d'ingresso terminava con due porte: quella destra su un salone e la sinistra sulla cucina. Camminai rasente la parete destra fino a guardare dentro la cucina. Vuota. Buttai un occhiata rapida oltre lo stipite della porta del salone e mi sentii mancare il fiato.
Rodrígez era legato ad una sedia nel centro della stanza. Aveva un taglio che gli correva da una parte all'altra della base della mascella e la lingua era stata tirata fuori attraverso di esso. Sotto di lui una pozza del suo stesso sangue, come un macabro centrotavola. L’affare si stava facendo preoccupante. Estrassi il cellulare.
«L’ho trovat—»
«Ottimo! Sono per strada, arriverò—»
«Maurice... è morto. Gli hanno fatto una cravatta thai»

mercoledì 31 agosto 2011

Inarrestabile

Materia arancione

Con quella corsa, io e Jennes stavamo infrangendo ogni record sulla tratta Centrale Purificazione Acque – Ospedale, qualcosa degno di essere menzionato negli annali dell'area di alienazione gialla; se mai fosse esistito. A passo di marcia, e con le dovute precauzioni durante il tragitto, quel pezzo di strada si prendeva un'ora e mezza per essere percorso; noi ‒ carichi come muli di reperti gialli e con un inarrestabile di almeno 90 chili su di una barella improvvisata per l'occasione ‒ stavamo arrivando a destinazione in meno di cinquanta minuti dalla partenza.
Ormai procedevamo all'unisono, perfettamente sincronizzati. Destro, sinistro, destro, sinistro, e oltre i nostri passi sull'erba cresciuta troppo a fianco della strada, l'unico altro suono era il fiato che correva dentro e fuori i polmoni bruciandoceli. La vista dell'ospedale provocò in entrambi un enorme sollievo psicologico, ma poco servì per il corpo; il diaframma e le braccia rimanevano in fiamme e l'adrenalina era già esaurita da tempo.
Quella struttura striminzita la chiamavano tutti l'ospedale, ma non sapevo quanto potesse esserlo stato realmente prima del disastro; fin dalla prima volta mi era sembrato troppo piccolo. Ignoravo quante altre strutture del genere si potevano trovare nel mezzo della campagna della Moravia meridionale, ma era molto più che sufficiente per l'allestimento di un laboratorio clandestino dentro l'Area. Per il 'direttore' del laboratorio, il Dott. Grishenko, era un vero lusso quel angolo sperduto. Se solo avesse avuto anche i circuiti del gas funzionanti e la corrente elettrica sarebbe stato perfetto. Per il primo problema non si poteva ancora fare molto, quanto per il secondo, si accontentavano di un grosso gruppo elettrogeno a gasolio delle dimensioni di un container da 20 piedi nel seminterrato che occupava il posto dell'ambulanza.
Entrammo di corsa dal doppio portone spalancato, superando sia i banchi delle accettazioni sfondati che il disordine delle panchine d’attesa rovesciate alla rinfusa per l’atrio, per dirigerci al piano interrato dove c’era la sala preoperatoria. Eravamo certi che Grishenko ci stava aspettando lì.
Cominciammo a scendere per le scale d’emergenza. Le braccia avevano provato a convincermi di mollare quel carico antropomorfo da quasi un quintale già una decina di minuti fa, ma nonostante tutto ero riuscito a resistere fino alla fine. Il bruciore era tale che mi sembrava di averle perse in battaglia. Sapere che eravamo arrivati non aiutava molto. A metà dell'ultima rampa il mio corpo diede atto ad un gesto di protesta facendomi mancare un gradino. Finii con battere il culo su un gradino mentre Jennes ‒ continuando la discesa ‒ oltre a schiacciarmi il corpo della bestia contro, mi cadde addosso. Il fracasso e le imprecazioni avvisarono il medico del nostro arrivo. Aprì la porta che dava sulla tromba delle scale che avevamo già riassettato il carico sulla barella.
«Oh, finalmente!», esordì tradendo impazienza.
«Ah certo!» il fiatone rompeva la voce con cadenza regolare «Scusaci… se non siamo… arrivati puntuali… con questo bastardo… da cento chili… sulle spalle!»
«Avrei voluto… vedere te» incalzò Jennes «Piuttosto… dove lo molliamo?»
«Là, su quel lettino.», ci indicò un letto mobile dietro di lui.
Lasciammo il bastardo con gran sollievo per le braccia di entrambi. Non le sentivo più.
«Adesso spiegatemi per filo e per segno tutto quello che è successo. Dove lo avete trovato, cosa faceva e come lo avete ucciso. Già non capita di frequente di uccidere uno di questi cosi e tornare indietro per raccontarlo, figurati portarselo dietro per farlo esaminare.»
Mi sedetti a terra ansimando seguito a ruota da Jennes «Facciamo… una bella cosa… tu ci dai… una bottiglia di acqua… potabile… a testa… e ti raccontiamo… tutto»
«Horosho, se volete ci sono delle sedie nella stanza qui vicino»
Rivolsi uno sguardo interrogativo a Jennes che scosse la testa rifiutando «Stiamo bene qui… per ora»
Grishenko fece spallucce «Vi porto dell’acqua. Riposatevi».
Tornò dopo un minuto con una sedia pieghevole e due grosse bottiglie d'acqua di plastica. Ce ne lanciò una a testa, aprì la sedia, si sedette sopra e rimase li a guardarci aspettando che cominciassimo a parlare su cosa fosse accaduto. Cercai di prendere la bottiglia al volo, ma le braccia si stavano rifiutando di collaborare. Fermai la sua corsa con la faccia, accompagnando il goffo gesto ad un gemito. Jennes non fu da meno. Con grande fatica prosciugammo quelle bottiglie d'acqua tiepida, interrompendo di tanto in tanto le sorsate per ansimare dell'aria e riposare le braccia tremanti.
Feci frullare in aria l'indice per far capire a Grishenko di darci altro tempo; lui annuì e si alzo andando ad esaminare il cadavere. Mentre continuavamo a boccheggiare cominciò a dare un occhiata ai fori di proiettile uno per uno. L'inarrestabile doveva aver ricevuto almeno una cinquantina di proiettili prima di crollare a terra e il dottore ce ne avrebbe messo di tempo per verificarli tutti a quel modo. D'un tratto strabuzzò gli occhi, portò le dita su un foro cercando di slargarlo, per poi distaccarsi di colpo e spingere il lettino dentro una sala. Grishenko svanì dietro la porta senza fiatare.
Chiusi gli occhi e lasciai cadere la testa all'indietro sulla parete cercando di recuperare un po' di forze per il futuro 'terzo grado' che ci avrebbe fatto il dottore dopo l'esame del corpo.
Probabilmente sarei stato anche capace di addormentarmi subito ‒ lo sforzo era stato enorme e l'assenza di adrenalina cominciava a sentirsi ‒ se non fosse stato per l'urlo terrificante che arrivò dalla sala nella quale si era infilato Grishenko. Jennes e io ci guardammo senza capire il perché. La risposta arrivo un istante dopo, quando la caratteristica voce dell'inarrestabile coprì quella del medico.
Cercammo di scattare in piedi, ma il corpo non reagiva agli stimoli. Riuscii a divincolarmi dalle spalliere dello zaino nello stesso istante nel quale Grishenko si precipitò fuori dalla porta. Non pensai nemmeno per un istante di prendere il kalashnikov ‒ sarebbe stato troppo pesante da maneggiare ‒ e pregai le braccia di raggiungere in velocità la CZ75 nella fondina cosciale. L'inarrestabile superò le porte con un balzo mentre stavo ancora armeggiando con la fondina, quando una scarica della mitraglietta Skorpion di Jennes aggiunse ulteriori venti fori a quelli che gli avevamo educatamente fornito alla bestia durante la sparatoria di un'ora fa alla Centrale Purificazione Acque.
L'inarrestabile cadde esanime per la seconda volta.

domenica 17 luglio 2011

La pace di Adrien

Era solo rumore di pioggia

Quella sera una tonalità più scura del nero dominava ogni angolo di cielo sopra la linea dell'orizzonte. Nemmeno il sole sarebbe stato capace di superare la coltre di nuvole che si era addensata sopra la città negli ultimi tre giorni, abbandonandola alle sole luci arancioni dell'illuminazione stradale.
L'aria era calma e non era ancora caduta una singola goccia di pioggia, ma i lampi che illuminavano il cielo stavano dando ragione alla previsione del servizio meteorologico. L'annuncio diramato informava che quella notte le tonnellate d'acqua accumulate in cielo si sarebbero abbattute sulla città; in tutta risposta i cittadini, con il supporto della protezione civile, avevano risposto all'avviso cercando di arginare i possibili danni. Tutto quanto quello che normalmente si sarebbe trovato per strada, come tavolini, sedie o quanto altro appartenesse ad un esercizio commerciale, era stato stipato alla bene-e-meglio nei locali chiusi ed ogni finestra o vetrata era stata protetta con il suo infisso in attesa del peggio. Piazza San Raphael, nel pieno centro storico, non faceva eccezione.
Nonostante l'altisonante 'piazza', si trattava in realtà di una piccola piazzetta, adibita a parcheggio, coperta di quadretti di porfido e circondata da ogni lato da vecchie costruzioni ristrutturate a due o tre piani con tanto di portico. Dati i posti auto disponibili e la protezione offerta dai portici, San Raphael era diventata un habitat naturale per alcuni locali notturni che aiutavano i lavoratori a distrarsi dai problemi di tutti i giorni, riempiendo di musica e voci l'ambiente circostante; con la notabile eccezione di quella sera. Le luci ed i suoni dei divertimenti notturni latitavano e, come per il resto della città, anche la piazza era ridotta ad uno spettro di sé stessa; osservazione che calzava perfettamente anche per l'unica persona presente al suo interno.
Fino a pochi anni fa Adrien era un cuoco canadese che stava facendo carriera in Francia, mentre ora viveva di espedienti e si ritrovava con un visto turistico scaduto, al pari di un comune clandestino. La vita sregolata e carica di stress di quegli ultimi due anni avevano causato in lui delle reazioni del metabolismo che lo avevano segnato come pressione alta, dermatite e un'allarmante perdita di peso, oltre che di capelli.
Sedeva in una Renault 8 quasi nuova, rubata pochi giorni prima in previsione dell'azione di quella notte. Come nei minuti precedenti al furto, anche in quel momento ‒ in vista della sua ultima mossa ‒ stava sudando freddo e le sue mani erano incapaci a stare ferme. Nonostante percepisse l'assenza di qualsiasi sguardo indiscreto rivolto verso la piazza, stava combattendo contro sé stesso per convincersi a prendere la pistola nascosta sotto il cruscotto della vettura.
Non servì nemmeno il tempo di pensare al concetto di 'rinuncia' che il motivo principale di quella situazione prese parola dentro la sua testa.
Che succede, non vorrai mica rinunciare?
“Rinunciare? No, sono già andato oltre... la pistola, l'auto rubata... non posso più fermarmi, non adesso”
E allora rilassati. Fai un bel respiro profondo e prendi la pistola. Il resto verrà da sé. Come sempre.
Adrien sospirò, prese la Walther P38 dal suo nascondiglio e uscì dalla vettura. Si diresse verso il portone di legno del vecchio stabile che chiudeva la piazza sul lato ovest con la pistola stretta nella mano sinistra. I suoi pensieri lo portarono per un attimo alla scena finale.
“Siete sicuri? E se non fosse stata lei?”
Deve essere stata lei, sennò non saremmo qui con te. Comunque sia, avrai quello che cerchi; te lo abbiamo promesso.
“Basta che dopo non sia lei a ricominciare con questa storia”
Loro non gli risposero.
Si era preparato a forzare la serratura dell'ingresso in caso di necessità, ma il portone si aprì senza fiatare non appena la sua mano destra si poggiò sulla maniglia. Lo richiuse subito dietro di sé e si ritrovò nella piccola corte interna del casolare. C'erano due ingressi ulteriori, uno per ogni ala dell'edificio. Con calma passò lo sguardo sulle targhette dei due citofoni alla ricerca di una scritta: Adrienne. Come vide il nome accanto al numero 1-5, un'esplosione di commenti rimbombarono nella sua testa.
Eccola – È lei – Finalmente! ‒ Bastarda ‒ Falla fuori ‒ Puttana! ‒ Uccidila ‒ Non avere pietà
Adrien si accovacciò, portandosi le mani alle tempie doloranti.
“Cazzo, piantatela! Avete aspettato per due anni, ora abbiate pazienza ancora per un po'”
Le voci dei fantasmi nella sua testa si placarono, ma li sentiva ancora bramare la vendetta come non mai.
Appena il dolore tornò sopportabile, si rialzò per imboccare l'ingresso dell'ala sud e raggiungere il luogo dove si sarebbe svolto l'ultimo atto del suo dramma: appartamento cinque, primo piano.
Man mano che si avvicinava alle scale, la tensione nervosa accumulata in attesa dell'omicidio cominciò a scemare; i sudori freddi stavano svanendo ed il tremore alle mani si era smorzato. Decise di lasciare spente le luci che avrebbero illuminato le scale ed i corridoi per evitare di attirare l'attenzione, facendosi guidare a destinazione soltanto dai saltuari lampi che si facevano strada oltre le fessure degli scuri. Percorrendo i gradini, provò a farsi un idea di quanto tempo passasse mediamente fra il lampo ed il tuono; la cosa gli sarebbe potuta tornare utile al momento dello sparo. La pistola stretta nella mano sinistra sembrava infondergli una fiducia fino a quel punto inaspettata. Come per il furto, nell'eseguire l'atto criminale le difficoltà sembravano scomparire, tutto sembrava alla sua portata. Era come se stesse eseguendo un copione già prestabilito, come se lo avesse già fatto e dovesse solo richiamarlo alla mente per evitare ogni errore. Si sentiva più sicuro, quasi inarrestabile. Era una miscela di sensazioni che gli iniettava un insano piacere ed una voglia di commettere quell'ultimo gesto. Un sorriso amaro emerse da quel turbine di certezze. Si stava chiedendo se, più che fiducia nelle proprie capacità, non fosse solo adrenalina sommata ad una buona dose di incoscienza.
Aveva raggiunto il fondo del corridoio, la porta di fronte a lui riportava i caratteri '1-5'. La mano destra premette sulla maniglia, che scese a vuoto; la serratura era chiusa. “Sarebbe stato chiedere troppo” pensò. Inserì la sicura alla pistola e se la infilò nei pantaloni dietro la schiena, poi prese da una tasca della giacca gli attrezzi e cominciò a forzarla. Bastarono pochi minuti ed ebbe la meglio sulla porta di ingresso, poi Adrien sgattaiolò dentro richiudendola silenziosamente dietro di sé mentre i fantasmi cominciarono a bisbigliare tra di loro entusiasti.
Le scuri chiuse delle finestre lasciavano filtrare dalle feritoie della luce che velava di arancio tutto l'appartamento, interrotto ogni tanto dai lampi bianchi di protesta delle nuvole. Davanti a lui si presentava un piccolo soggiorno pieno di comfort con un angolo cucina sulla sinistra, sulla destra intravedeva un bagno e due ulteriori stanze: la prima sembrava una camera da letto mentre dell'altra si vedeva solo una porta chiusa. Si diresse verso un tavolinetto del soggiorno dove giaceva della corrispondenza aperta, prese qualche busta e si diresse verso la finestra per cercare di leggerne il contenuto.
Che succede adesso?
“Voglio trovare delle prove che la coinvolgono con la Brigata Indipendentista”
Ti ricordi come scomparve dopo l'esplosione? Davvero hai bisogno di altre prove? ‒ Noi non siamo un prova sufficiente? ‒ Che discorsi sono! ‒ Non perdere altro tempo ‒ Traditore!
“Ho già abbastanza innocenti ad affollare la mia testa” gli rispose mentre continuava a scorrere le lettere.
Dov'è il problema? Se lo farai, sia tu che noi saremo finalmente liberi.
“Questo lo dite voi. Come faccio a sapere che non state mentendo... o che non sono pazzo”
Non vorrai mica costringerci a giocare di nuovo sporco? A privarti ancora del silenzio per convincerti?
“No! No, per favore no. Non lo sopporterei più”
Allora muoviti! O questa sarà la volta che impazzirai per davvero ‒ Non hai più scelta! ‒ Sbrigati! ‒ Vogliamo essere liberi ‒ Così rimedierai al tuo err—
“NON SONO STATO IO! VOLETE CAPIRLO O NO!?”
Le voci scomparvero di nuovo, lasciandolo solo con le tempie doloranti.
«Idioti» sussurrò lanciando la corrispondenza sul divano.
Come un ombra cominciò ad attraversare tutto l'appartamento. Il solo pensiero della privazione del silenzio lo fece stare male; per loro quello fu l'unico modo di convincerlo a perpetrare la loro vendetta. Raggiunse l'ingresso della camera da letto e la tensione dei fantasmi divenne palpabile. Buttò un'occhiata all'interno della camera e la vide.
Un boato esplose nella sua tesa. Urla, imprecazioni e odio si riversarono fuori dai fantasmi.
“Silenzio! SILENZIO!”
Questa volta fecero molta fatica a placarsi.
Si fermò per qualche istante a guardarla dall'uscio della porta mentre dormiva sul fianco, in posizione fetale. Là, nel mezzo del lettone a due piazze, sembrava una ragazzina, con i suoi lisci capelli dorati e il seno appena accennato.
Maledetta bastarda, avrai la fine che meriti! ‒ Muori! ‒ Spara! ‒ Uccidila!
“No... non ancora”, entrò nella stanza con la pistola ancora dietro la schiena.
Cosa vuoi fare? ‒ Niente cazzate!
“Parlarle. Scoprire la verità”
No! ‒ Basta! Uccidila! ‒ Sai già la verità!
Si avvicinò fino ai piedi del letto per poi ‒ ignorando con gran fatica tutto il chiasso che urlava dentro la sua testa ‒ decidere di sedercisi sopra, accanto alle gambe di lei, per potergliele accarezzare. Come una volta, quando erano assieme; due anni fa. Non riusciva ancora a credere come quella donna, che l'aveva travolto nella più appassionante storia d'amore della sua vita, fosse stata in grado di inventarsi tutto solo per usarlo a sua insaputa come attentatore suicida.
Decise di parlarle appena le vide muovere un braccio in risposta alle sue carezze.
«Ciao Adrienne» sussurrò.
Prima ci fu un mugugnìo di protesta per l'ora ‒ era da poco passata mezzanotte ‒ poi un occhio si aprì. Passarono una manciata di secondi e non appena capì chi si stava trovando di fronte, spalancò gli occhi, scattò all'indietro battendo la schiena sulla testata del letto e richiamò le gambe al petto, allontanandole da quello che credeva un fantasma; il fatto venne ancora più accentuato da un lampo e dal vento che cominciò a bussare sulle finestre. La pioggia sarebbe arrivata da lì a poco.
«Oh, merda! Cosa? Tu... tu sei... tu dovresti essere... morto...» si guardava attorno come in cerca di un gruppo di persone pronte a gridare 'Sorpresa!'
«Invece sono qui, un fantasma a reclamare il suo nome»
Lei si stropicciò gli occhi e cercò di mettere a fuoco, incredula.
«Non sono un sogno Marie... posso chiamarti con il tuo vero nome, no?»
«S-sì... certo... come... come hai fatto... ti credevo morto... eri sull'aereo... poi l'incidente»
Esplosione! Non incidente, bastarda! ‒ Non ascoltarla! ‒ Uccidila prima che sia troppo tardi.
“SILENZIO!”
«Ti sbagli, non ero sull'aereo»
«Cos—»
«Mi sono sentito male in aeroporto e non sono riuscito a salirci. Al contrario degli altri passeggeri e del mio bagaglio...»
Quell'ultima frase mise in allarme Marie, anche se l'unico segno tangibile di quel cambiamento furono gli occhi che corsero per un istante al comodino accanto ad Adrien.
Sta tramando qualcosa ‒ Smettila con le chiacchiere e uccidila ‒ Ha avuto fin troppo tempo, falla fuori! ‒ Vendicaci! Prendi la pistola e spara
«Perché mi hai cercato? Che ci fai qui?»
«Sono venuto a zittire i fantasmi che tormentano la mia testa da quel giorno, sono venuto a chiederti la verità...»
Gli occhi di Marie tornarono per un attimo al comodino.
«Mi desti un pacco, mi dicesti che era di 'vitale importanza... da non aprire assolutamente'... per una sedicente sorella in Canada, giusto?»
«Sì... ma... aspetta... tu credi che la bomba sia stata opera mia? Credevo che le cose fossero chiare.»
«NO! Non lo sono! Dimmelo che non sei stata tu, convincimi! Cosa c'era in quel pacco?»
«Non... non...»
Non lo sa! ‒ Sta inventando una storia ‒ Mente, uccidila!
«Allora non lo sai?»
«Cazzo! Non posso dirtelo, è un segreto del g—»
«Io dico di sì», si alzò dal letto ed estrasse la P38 puntandogliela contro.
«Oh no, nonono, metti giù quella pistola Adrien»
«Sto aspettando»
Non aspettare ‒ Sparale! ‒ Fai fuoco!
«Io... oh cazzo...»
«Allora?!»
«No... nonono, aspetta... io n—», ancora rannicchiata, agitava le mani in avanti.
«SEI SORDA?!»
«CAZZO!», sbatté i pugni sul materasso «C'erano delle prove, va bene!? Prove per incastrare quegli stronzi della B.I.! Sono stati loro a far scoppiare l'aereo in volo perché avevano ricevuto una soffiata... ancora non capisci, vero?», si inginocchiò sul letto «Per questo ho dovuto cambiare identità, per questo mi sono dovuta nascondere e sono scomparsa. Ora sono nel programma di protezione, per questo ci hai messo così tanto tempo per trovarmi di nuovo», si alzò in piedi sul letto «Non si parlava di alcun superstite e ti credevo morto nell'esplosione per questo ho scelto questo nome, Adrienne... il tuo, perché mi ricordassi sempre di te», fece un passo nella sua direzione in lacrime.
“Cosa mi dite adesso?”
Non è vero! ‒ Uccidila! ‒ Sta solo guadagnando tempo, sbrigati a farla fuori! ‒ Sta mentendo!
«Mi sei mancato» tirò su con il naso «dio solo sa quanto mi sei manca—», si girò spaventata verso la porta «NO! Fermi!»
Adrien si girò spostando la pistola verso la porta della camera. Doveva immaginarlo, non c'era stato niente che avesse annunciato l'arrivo di altre persone, nemmeno un suono. L'ingresso era vuoto. Quando si rigirò il calcio di Marie era già lanciato contro la pistola.
Il canadese serrò la mano attorno alla P38 intravedendo in quel gesto un tentativo di disarmo, anche se ‒ più che un colpo vero e proprio ‒ gli sembrò solo uno spintone. Non capiva che intenzioni potesse avere, ma sentiva ancora di poter avere la meglio se le cose fossero andate peggiorando. Marie sapeva che non sarebbe riuscito a disarmarlo, ma il primo colpo era solo una preparazione per la seconda mossa. Ora che l'arma non puntava più su di lei e poteva colpirlo senza timore che un proiettile la centrasse. Richiamò indietro il piede lungo una traiettoria differente dalla prima, centrando l'uomo in piena testa con tutte le forze. Adrien per un attimo vide tutto grigio, l'equilibrio divenne precario e fece due passi all'indietro battendo la nuca sulla parete divisoria alle sue spalle. Rimase intorpidito dal dolore per un secondo. Nel mentre vide lei ribaltare il comodino, afferrare il coltello da combattimento nascosto in un doppio fondo e lanciarsi contro di lui.
Visto!? ‒ Reagisci ‒ Muoviti, spara!
Adrien era tranquillo, aveva ancora il tempo necessario per reagire e si stava già immaginando il finale della scena. Come nel copione che aveva preso forma nella sua testa: lui sparava e lei, colpita, cadeva esanime contro il suo corpo con il coltello che finiva per terra vicino a lui. Era questione di vita o di morte, le prove le avrebbe cercate dopo. Trattenne il respiro, puntò alla testa e premette il grilletto.
Click
“La sicura...”
MERDA!
Con l'aiuto di tutto il peso del suo corpo, Marie affondò talmente tanto a fondo nella carne del canadese ‒ appena sotto la clavicola sinistra ‒ che perfino una sporgenza del manico entrò nella spalla, insinuandosi sotto l'osso. In quel momento ad Adrien fu chiara una risposta. Non c'era sicurezza. Non c'era alcun genere di copione già scritto provato e riprovato. Dentro di lui c'era solo adrenalina ed incoscienza.
I loro volti erano così vicini che si sarebbero potuti baciare, proprio come quando stavano assieme, solo che questa volta sul volto di lei non c'era alcun simulacro d'amore recitato apposta per ghermirlo, c'era solo un ghigno di rabbia e degli occhi carichi di odio per chi non era morto due anni fa come aveva desiderato.
Adrien con quel colpo era stato privato della sicurezza che gli era cresciuta in corpo in previsione del finale e ora non riusciva a più capire quello che gli stava succedendo. Riuscì solo balbettare senza una logica apparente, fissando incredulo le mani di Marie che continuavano a spingere.
Quando si accorse di aver mancato il cuore, la donna cercò di estrarre il coltello con tutte le sue forze, ma le uniche cose che riuscì ad ottenere furono: un'imprecazione, una serie di passi all'indietro e una seduta sul letto dopo essere inciampata sul comodino. L'arma rimase lì, incastrata sotto la clavicola; sia per colpa del manico, reso scivoloso dal sangue e dal sudore, che dall'inattesa presenza dell'osso.
Ora che le mani di Marie non coprivano più il manico del coltello, Adrien fu capace di cogliere un dettaglio nell'istante in cui un lampo bianco illuminò la stanza. Sul lato c'era impresso il marchio della B.I. Alla sua vista tutto fu chiaro e lui cominciò a contare i secondi.
ADESSO TI SERVONO ALTRE RISPOSTE?!
“No”
Disinserì la sicura.
«Aspetta!» gridò lei.
Il tuono coprì il suono dello sparo.
Marie giaceva sul letto esanime, Adrien lasciò cadere la pistola a terra. Terminato l'eco del tuono, il silenzio più assoluto svuotò la sua mente. Un silenzio talmente perfetto che non aveva nemmeno intenzione di pensare per aver paura di intaccarlo. Non voleva pensare al fatto che fosse stato usato per far saltare quell'aereo in volo, non voleva pensare che quella fantastica storia d'amore fosse stata solo una bugia e non voleva neanche pensare al fatto che quella ferita lo stava per uccidere. L'unica cosa su cui si stava concentrando erano i fantasmi.
Avevano rispettato il patto, non erano più nella sua testa e non avvertiva più i loro sguardi dentro di lui, però li sentiva ancora, trepidanti, fuori dalla finestra che dava su Piazza San Raphael. Si diresse verso la finestra e la spalancò. Ora li sentiva chiaramente. Sembrava che i fantasmi avessero riempito la piazzetta; percepiva in loro l'approvazione per quello che aveva fatto, gli rendeva meno spiacevoli le azioni che lui stesso aveva deplorato. Gli innocenti avevano avuto la loro vendetta.
Sorrise di fronte allo scrosciare di mani che arrivava dalla piazza. Allargò le braccia e poi si esibì in un paio di profondi inchini, come un attore sul palco alla fine dell'atto finale, ignorando il fatto che era in procinto di perdere i sensi e che stava per cadere dal primo piano contro il porfido della pavimentazione. Dopotutto, quello che stava sentendo era il più lungo, intenso e sincero applauso che fosse mai stato eseguito per qualcuno. Anche se per chiunque altro era solo rumore di pioggia.

giovedì 30 giugno 2011

Un gatto di nome Caronte - 1/X

Versus - Parte 1/X

Nella vita di Nicola esistevano due tipi di giornate: quelle sbagliate e quelle di ferie. Il trillare della sveglia gli ricordò che non sarebbe stata una bella giornata.
La mano zittì la suoneria per lasciare il posto al giornale radio. Mentre il braccio tornava a cascare sulla coperta, gli occhi fissavano il soffitto della stanza. Davanti a lui si prefiggeva un’altra giornata di merda, in un posto di lavoro che odiava, immersa in una vita grigia e in una città altrettanto allegra e colorata. La solita routine.
Si mise a sedere sul letto. Era solo martedì ma sperava che fosse già sabato. Diede un’ultima occhiata alla sveglia per farsi coraggio e andò in bagno a lavarsi mentre la radio era pronta per ripartire con il notiziario, ormai uguale da quasi due mesi a questa parte.
Era di fronte allo specchio, pronto per radersi con la schiuma ben distribuita sotto al mento, quando puntuale partì il servizio colpevole di aver monopolizzato l’informazione italiana nell’ultimo periodo.
I manifestanti anti Versus continuano l’animata protesta davanti a Montecitorio, raccogliendo firme per un referendum atto ad abolire le partite della misteriosa società sul suolo italiano. Ma governo, maggioranza e opposizione sono in accordo sul fatto la Versus continuerà ad operare come attualmente fa in molti altri paesi d’Europa e degli Stati Uniti. L’Italia – comunica il ministro dell’interno Pretini – è un paese maturo e sarebbe moralmente inaccettabile rimangiarsi la parola dopo gli investimenti effettuati dalla Versus sul suolo nazionale. Un ennesimo appello alla ragione arriva dal vaticano tramite il cardinale Gianello, portavoc—
Spense la radio con il dito ancora umido e tornò a farsi la barba. Era stufo di sentire quel disco rotto. Il popolo avrebbe potuto protestare quanto voleva – pensava Nicola tra i colpi di rasoio – tanto non sarebbe servito a niente. Come sempre.
Il resto della sua mattinata era scandita ad un ritmo ben preciso; quell’ottimizzazione dei tempi gli permetteva di dormire qualche minuto in più. Subito dopo essersi lavato, andava nel cucinino per scaldarsi il caffellatte da consumare con una singola fetta biscottata. Senza nemmeno aver finito d’ingoiarla, si alzava per andare a vestirsi per la giornata lavorativa. Per oggi aveva preparato: vestito nero, camicia bianca e cravatta arancione. Lavarsi i denti era l’ultima attività prima di prendere la borsa con il computer ed uscire di casa.
Si lasciò l’appartamentino alle spalle mentre i passi che lo portavano all’uscita risuonavano nel corridoio e lungo le scale, persi nel vuoto delle pareti sbiadite del palazzo. Uscì dal portone per entrare nel pigro traffico mattutino di Gorizia, dove il silenzio dell’edificio ancora addormentato, venne sostituito dall’incessante rumore di fondo della città. Guardò l’ora. Era due minuti in anticipo e poteva camminare con tutta tranquillità verso la fermata a un centinaio di metri da casa.
Il corso Italia, se percorso sull'autobus dal teatro alla stazione dei treni, durava dalle due alle tre canzoni, in base all'umore della coppia di semafori che lo interrompevano. Da più di un anno Nicola rubava un passaggio quotidiano al servizio pubblico; il controllore saliva sempre alla fermata della stazione, dove lui scendeva per attendere la corriera della linea 38. Quei cinque minuti che lo separavano dalla seconda parte del viaggio, facevano la sua giornata. Una delle due cose che riempivano la sua vita si mostrava. Stefania.
Si erano conosciuti a casa di un loro amico comune – Simone – durante la sua festa di compleanno l’inverno appena finito. In mezzo alla folta schiera di amici presenti l’aveva notata subito, risaltava come solo un dettaglio a colori in una foto in bianco e nero sa fare. Portava i capelli castani ondulati tagliati poco sopra le spalle, accompagnati da due occhi smeraldo dallo sguardo furbetto e un paio di perfette labbra rosse; talmente uniche che nemmeno una foto sarebbe riuscito a dare loro giustizia. Indossava un tubino del colore delle sue iridi che portava in modo incantevole, senza nessun accenno di vanità. Fin da subito con lui si era dimostrata cordiale, simpatica e decisa. Forse fu proprio grazie al suo carattere accomodante che Nicola riuscì a passare con lei l’intera serata, isolandosi dal resto del mondo e scoprendo quante cose avessero in comune, nel bene o nel male. Saltò fuori come entrambi vivevano da soli a causa di una situazione familiare complicata e di come il loro lavoro fosse privo sia di aspettative per il futuro che di soddisfazione; di come fossero sottopagati e con poco tempo libero a disposizione per sé stessi e per le proprie passioni. Si sentivano sottratti della loro stessa vita e niente di quello che ottenevano sembrava giustificare quella fatica. Tutti e due non avevano più nulla da perdere; solo da guadagnare. Fu quella considerazione che fece scattare in Nicola quel attacco di sincerità, quel momento di apertura che lo fece parlare senza freni, indubbiamente aiutato dall’alcol con cui stava festeggiando.
«Dimmi, cos’è che ti manda avanti?», Nicola portò lo sguardo sul viso di Stefania. «Vedi, pensavo che essendo in una situazione simile, mi chiedevo—»
«Sai, non me l’ero mai fatta questa domanda», gli rispose continuando a guardare giù dal balcone con il bicchiere ormai vuoto in mano. Si concesse un minuto di tempo per riflettere, per infine rispondergli guardandolo negli occhi.
«Ci penserò su. Te lo dirò la prossima volta che ci vediamo, va bene?»
«D’accordo, te lo concedo. So che non è una domanda facile» sperava che almeno lei, in quello, fosse diversa da lui.
«Tu invece?»
«È un segreto» rispose solenne.
«Scemo» disse toccandogli con il gomito il fianco.
Risero per poi continuare a scherzare dentro in modo da non dimenticare di festeggiare l’amico che stava per far entrare la torta nel salone.
Era stata una notte magica, la più bella che avesse mai vissuto. Sperava comunque che non rimanesse tale per tutto il resto della sua vita. Rimpiangeva come fosse riuscito ad arrivare a tanto senza però avere il coraggio di chiederle di rivedersi nei giorni successivi. Dopo quella fantastica ‘occasione persa’ tutte le volte che l’incontrava per caso, si era limitato a dirle un timido «Ciao, come va?» senza mai avere il coraggio di andare oltre. Forse fu davvero l’alcol il vero protagonista di quella serata; artefice di quei dialoghi tanto sinceri e capace di sciogliere quel nodo che normalmente lo costringeva a stare sulla difensiva con le donne. Si sentiva un cretino a non aver ancora fatto il passo successivo.
La osservava quasi tutte le mattine raggiungere la stazione per andare a lavorare a Trieste. Rivedere quegli occhi verdi e quel paio di labbra perfette – anche se imbronciate in una smorfia di tristezza che l’accompagnava dall’autobus al treno – erano il più bell’augurio di buona giornata che avesse mai potuto sperare. Quando la corriera per Udine si presentò in anticipo sulla rotonda, capì che oggi avrebbe dovuto farne a meno. Dell’autobus e di Stefania, non c’era ancora traccia.
I pendolari salirono sullo Scania blu e argento, andandosi a sedere nei posti vicino alle uscite. Nicola prese posto nella prima fila, si tolse gli auricolari, estrasse da una tasca della borsa Dune e lo riaprì sulla pagina dove l’aveva lasciato per tornare ad immergersi nella lettura.

martedì 31 maggio 2011

Uscita a fumetti

Realizzazione del fumetto

Torna il binomio Sarah Floris e Norman Vauxhall. Questa volta si tratta di un soggetto partorito al 100% dalla mia mente malata e, per chi mi ha seguito assiduamente, già visto in passato. Vi avviso che i temi sono forti; deboli di cuore o facilmente impressionabili sono avvisati.
Bando alle ciance e passiamo ai fatti.

Come sempre ogni commento e suggerimento è benvenuto.

Disegnato da Sarah Floris
Testo e sogetto di Norman Vauxhall

Buona lettura.







martedì 12 aprile 2011

Le vittime di Murphy

La dura legge è sempre legge

Un altro volo di rientro e tutto lo schema si ripeteva con grande precisione come per i sette anni precedenti, nonostante la media di due voli internazionali al giorno, cinque giorni su sette, per tutte le settimane dell’anno.
Passavo il controllo della carta d’imbarco, il metal detector, facevo passare il bagaglio a mano, lo aprivo, lo facevo ispezionare – non senza le solite domande in merito – e attendevo al gate, questa volta il numero sedici, l’imbarco per il mio volo.
Si profilavano ancora venti minuti di attesa prima che cominciassero a far salire i passeggeri e decisi di leggere il giornale per ammazzare il tempo; la scrematura dei possibili candidati a starmi vicino per questo volo era già andata a buon fine, trovando tre persone che possedevano tutti i requisiti necessari. Questa volta era stata anche più facile del previsto anche se non ho mai fallito in vita mia. Ho un dono per questa cosa.
Ognuno di noi nasce con un attitudine. Qualcuno è fortunato; la scopre fin da piccolo e coltivandola con passione riesce a diventare un maestro nel proprio campo. Un sacco di sportivi, artisti o scienziati famosi hanno percorso questa strada. Altri meno; scoprono la loro attitudine tardi. Di questi, alcuni riescono anche a trovare la forza di volontà e la capacità di recuperare gli anni persi mentre tutti gli altri si limitano a guardare da bordo campo quello che accade in un mondo del quale si vorrebbe far parte. I rimanenti portano con sé nella tomba il loro dono, senza riuscire a scoprire quale fosse quella caratteristica innata che la natura gli conferì al momento della nascita per fargli capire che non erano stati dimenticati. Perché tutti siamo stati toccati da lei per farci sapere che siamo nati con uno scopo nella vita. Ma nel mio caso, vi assicuro, avrei davvero voluto che si fosse dimenticata di me.
Non fraintendetemi, esistono un sacco di capacità ammirevoli. Una volta ebbi modo di incontrare un ragazzo che era capace di trovare l’acqua nel sottosuolo con l’ausilio di un semplice bastone di legno. Era qualcosa che aveva scoperto da piccolo e che aveva affinato con il tempo per renderla infallibile. Mi disse che quell’abilità si chiamava rabdomanzia.
Per il mio di dono, invece, non esiste un termine specifico, ma sono quasi certo che esista una legge di Murphy in merito e credo che porti anche il mio nome. Dovrebbe recitare pressappoco così: Murphologia – Sezione Frequent Flyer – Legge di McAllister sulla compagnia. “Se stai per cominciare un lungo viaggio e vuoi sapere chi ti siederà vicino, cerca al gate d’imbarco la persona più molesta, maleodorante, antipatica e brutta… sarà lui”. Questa ha funzionato per ogni viaggio della mia vita nonostante non mi sia esercitato una sola volta; anche quando ho provato con tutte le mie forze a contrastarla ha sempre trovato il modo per ribaltare la mia scelta e compiere il suo volere.
Per il volo di oggi i candidati erano tre: un grassone barbuto con un completo di velluto marrone che – oltre ad avere un aspetto parecchio inquietante – era capace di assordare chiunque gli stesse vicino solo tirando su con il naso, una racchia anoressica sulla quarantina con gli occhi sporgenti in cerca di qualcuno con cui lamentarsi delle innumerevoli storia finite male ed un adolescente parecchio teso – probabilmente al primo volo – con la tensione dipinta sotto le ascelle ed il piede d’atleta che, sommato alla brutta abitudine collettiva di togliersi le scarpe in aereo, avrebbe dato la possibilità a tutti i vicini di condividere con lui il suo problema.
Niente di preoccupante, erano nello standard; mi era capitato di molto peggio nella vita. Per soggetti del genere mi ero fatto il callo: erano l’equivalente di una rassicurante routine quotidiana.
Più si avvicinava il momento dell’imbarco dei passeggeri e più cominciai a credere che vicino a me si sarebbe seduta l’anoressica delusa. Con gli altri due mi sarei dovuto sorbire odori e rumori sgradevoli; una pena che mi veniva afflitta involontariamente e che sarei riuscito a compensare, almeno in parte, con i sistemi di intrattenimento di bordo. Ma con lei non avevo la certezza che avrei potuto farlo; era l’unica che sarebbe stata capace di privarmi di quell’unico sollievo tediandomi attivamente per tutto il viaggio, probabilmente con discorsi noiosi e con personali teorie su quanto fossero stronzi gli uomini. Se l’avessi ignorata non avrei fatto altro che avvalorare la sua tesi e dargli ulteriori motivi per argomentare con me in merito. Sarebbe stato molto importante reagire con calma, con una serie di risposte calibrate, per superare quel campo minato senza lasciarci pezzi o morire nel tentativo. Era un sistema che aveva avuto successo in altre occasioni.
All’apertura dell’imbarco ero già in ottima posizione e riuscii a passare il controllo biglietto per primo. Salii sull’aereo e, salutando gli assistenti di volo, mi diressi verso il mio posto lato corridoio. Se posso scelgo sempre un posto lato corridoio, mi da la possibilità di fuggire senza disturbare il vicino; se non ne trovo nemmeno uno libero – cosa difficile – ne prendo uno attaccato al finestrino. Finire in una fila centrale equivaleva a finire con avere affianco non uno, ma due molestatori. Questa è l’unica contromisura efficace che posso adottare per limitare i danni.
Dopo aver riposto il bagaglio nello scompartimento sopra la mia testa, mi lasciai andare sul sedile ad occhi chiusi, volendo mantenere la “sorpresa” intatta fino all’ultimo istante. Avrei avuto le sei ore successive per averci a che fare.
Con il passare dei minuti percepii come i tre molestatori designati occuparono dei posti nelle file precedenti o successive alle mie. Non ebbi il tempo di capire cosa stesse succedendo che una voce interruppe i miei ragionamenti.
«Scusi?»
Quella voce angelica mi fece sobbalzare sul posto. Aprii gli occhi e scoprii che un bel viso dai capelli corvini mi stava osservando impaziente.
Nonostante la confusione mentale di quel momento, cercai di fare un sorriso rassicurante dopo il «Prego». Dall’espressione che fece lei nel vederlo, supposi che non riuscii a far nient’altro che un ghigno da maniaco. Mi feci il più piccolo possibile per farla passare e la osservai mentre mi sfilava davanti per prendere posto. Era una delle donne più attraenti che avessi mai visto.
Finito di allacciarsi la cintura di sicurezza, cominciò a giocherellare con il sistema d’intrattenimento di bordo. Nel frattempo la mia mente si spremeva alla ricerca di una possibile motivazione logica dietro a questo evento anomalo, ottenendo come risposta cinque ipotetiche soluzioni. La prima: dopo tutta la fatica di questi anni di viaggi con accanto le persone più fastidiose del pianeta, eccoti premiato per tutta la tua fatica; goditi questo momento di gloria. La seconda: Questa è l’eccezione che conferma la regola; mettiti il cuore in pace, dal prossimo volo si ricomincerà. La terza: C’è stato un errore; lei ha preso il posto di uno dei candidati e fra poco tutto tornerà come previsto. La quarta: questa è davvero la persona più molesta del volo, quindi occhi aperti, molta cautela in quello che dirai e attento a dove andrai a finire. Quinta: lei ha una legge di Murphy più potente della mia e io sono la sua punizione.
La mia tranquilla, seppur spiacevole, routine quotidiana era stata spezzata senza il minimo preavviso e non mi sarei rilassato fino a quando non avessi capito quale fosse la soluzione all’anomalia. Se volevo scoprirlo avrei dovuto fare io il primo passo e quindi cominciai a pensare un argomento di conversazione che fosse il più naturale possibile. Non sarei riuscito a sopportare di rimanere in quello stato per tutte e sei le ore di volo.
Mentre scartavo domande banali come “È il tuo primo volo?” o peggio “Sei una frequent flyer?” la sua voce si fece strada sopra il calmo sibilo dei motori che cominciavano a smuovere l’aeromobile sulla pista.
«Sei in viaggio di lavoro?»
«In un certo senso… il mio lavoro mi obbliga a volare tanto, il tuo?»
«Solo una volta»
«Come?»
«Ho detto: solo una volta»
«Nel senso che è la prima volta che voli per lavoro?»
«No, nel senso che questa sarà l’unica per la quale volerò per lavoro»
«Permettimi, che lavoro fai?»
Lei non riuscì a frenare un sorriso malizioso prima della risposta «Lavoro per una multinazionale che lavora un po’ dappertutto»
«Di che vi occupate?»
Rifletté per qualche secondo portando gli occhi verso l’alto con fare pensieroso.
«Politica», rispose.
«Politica?»
«Politica», annuì.
«E come mai diretti a Caracas?»
«Dobbiamo andare a recuperare dei colleghi»
«Recuperarli? Come mai? Non… non possono prendere un aereo da soli?»
«Diciamo che dobbiamo andare lì per sbrigare delle pratiche. Ecco vedi… non possono lasciare il paese se non hanno un… visto e stiamo andando lì per recuperarglielo»
«Interessante» risposi, anche se mi ero accorto che qualcosa non tornava a livello legale.
«Tu che lavoro fai?»
«Uno dei più noiosi del mondo. Fai conto che gran parte del mio tempo è speso ad attendere»
«Non sembra un gran lavoro»
«No, non lo è… anche perché di solito attendo sempre senza che poi succeda niente»
«Uh, sembra proprio un lavoro del cazzo»
Mi scappò una risata, «Beh, non mi lamento. C’è di peggio… c’è sempre di peggio»
In quel momento i motori vennero portati a piena potenza e fecero correre l’Airbus sulla pista fino al decollo. A seguire ci furono i rumori di carrelli, flap e slat che si ritraevano. Infine le orecchie si abituarono al rumore di fondo.
Lei guardava incantata il mondo che si faceva più lontano ad ogni istante. Prima che potessi riattaccare discorso mi disse che voleva guardare un film e da quel momento in poi ci furono due ore di totale tranquillità nell’aereo. Quanto a me e alla mia risposta a quell’anomalia della mia legge di Murphy, non sapevo ancora a quale ipotesi credere; forse mi stavo preoccupando troppo. Lasciai che le cose scorressero e nel frattempo socchiusi gli occhi per gustarmi una pace appena scoperta.

Mi svegliò e il primo pensiero che mi passò per la mente fu “Dannazione, non dovrei appisolarmi”. Il suo viso d’angelo mi stava fissando con un’espressione carica di ansia.
«Che succede?»
«Devo andare in bagno e…» con un gesto mi fece capire che non c’era spazio.
«Oh, scusami», mi alzai e la feci uscire.
Tornai a sedermi e la guardai procedere lungo il corridoio in direzione della toilette. Notai subito come non si diresse verso i bagni più vicini – un paio di file dietro i nostri posti – ma si diresse verso i bagni a prua. Raggiunta la penultima fila prima della toilette, si fermò a parlare con un’altra persona. Con questa si scambiarono giusto due parole per poi girarsi e assieme mettersi a parlare con un altro; questo a sua volta si girò guardando in fondo al corridoio, alla ricerca qualcosa. Una quarta persona, da lì dietro, fece un cenno che venne corrisposto dagli altri tre. Lei annuì per poi riprendere a camminare verso la prua dell’aereo quando – un attimo prima che la tenda divisoria della zona servizi la coprisse completamente – la vidi estrarre una pistola Glock dalla sua fondina nascosta sotto la giacca.
Il primo pensiero che mi passò per la mente fu dirottamento.
Il secondo pensiero mi accese un sorriso amaro. Si chiamerà Legge di Murphy per qualcosa, no?
Il terzo pensiero mi aprì il sorriso da un orecchio all’altro. Ve l’avevo detto che sono uno sceriffo dell’aria?

giovedì 31 marzo 2011

Net sailing

Appunto per racconto cyberpunk 2/3

La prima generazione era un casino. Non la usa nessuno. È stata una cosa per drogati della rete, per pionieri, per folli.
Attacchi grossi come prese scart su tutta la schiena, quattro innesti elettrici e altrettanti processori. Con l’ingresso della Biochips nel mercato, e i primi nano processori, le cose migliorarono. Bastavano due attacchi elettrici e le centraline erano più piccole e veloci. Ma la schiena rimaneva comunque grottescamente sfigurata.
La seconda generazione è stata la prima disponibile all’ampia utenza. Più economica della prima, un solo processore e parecchi innesti a jack nelle vertebre. Potevi avere una vita normale, senza doverti preoccupare dell’aspetto della tua schiena. È quella con cui hanno corso e tutt’ora corrono i migliori. Quarta a parte.
La terza sembrò un grande passo avanti. Un unico processore a livello dell’ottava vertebra con un solo spinotto che portava alimentazione e cavi coassiali per i comandi. Molto economica, è stata una rivoluzione di massa ma risultò che era per hobbysti. Qualche esperto provò a farsela installare al posto della seconda, ma non riuscirono ad avere le prestazioni della seconda e tornarono indietro. Il problema? I cavi erano troppo vicini e creavano interferenza tra di loro nonostante la schermatura. Uscirono cavi con isolamento migliorato, ma il problema era anche nelle porte. Cambiarono le porte ma il problema migrò nelle centraline alla fine risultava che era proprio il concetto di trasposizione mentale-informatica che generava il problema. Le interferenze sono endemiche. Irrisolvibili. La seconda generazione rimaneva la migliore per i grandi.
Poi arrivò la quarta.
Qualcosa che vorrebbero tutti. È perfetta, veloce quanto la seconda, se non di più. Un solo attacco grande quanto una moneta da due euro e un cavo sottile. Una vera manna – per chi se la può permettere. É un evoluzione della terza. Hanno miniaturizzato tutto e cambiato la logica di trasposizione. Non dà più interferenze e il cavo trasporta i dati con la fibra ottica. È perfetta. Ci sono solo due tipi di navigatori che la usano, i migliori – che hanno i soldi per potersela permettere – e i bastardi, gente senza grandi abilità che si vende per lavorare protetto sotto la bandiera di una corporazione.
Diffida di uno poco bravo con la quarta. Sempre.

lunedì 28 febbraio 2011

Log on

Appunto per racconto cyberpunk 1/3

Lo spinotto dell’alimentazione è il più delicato.
Come tutti gli interruttori elettrici che si rispettino, poco prima dell’innesto hanno un picco di tensione. É fisica, non si può evitare. Te lo assicuro, non è mai bello sentire la scintilla che corre per la spina dorsale fino al gruppo di alimentazione del nano processore alla base della cervicale. Bisogna inserirlo con decisione e precisione altrimenti avrai a che fare con le urla più terrificanti e comiche che tu abbia mai sentito; anche se le tensioni sono basse. Credimi.
La parte migliore? Almeno questo è piccolo e sottile e una volta girato l’innesto a baionetta non da più molto fastidio; e si scalda subito.
Molto peggio sono i jack per il trasferimento sensoriale. Ogni gruppo di fasce nervose legato ad una particolare funzione ha un attacco a jack che ricorda molto le vecchie cuffie da 6,35mm. Gli attacchi sono distribuiti lungo le vertebre e hanno una doppia funzione: inibiscono i comandi trasmessi verso il corpo e li dirotta all’elaboratore. L’attacco è facile e diretto, proprio come quello degli altoparlanti, ma il vero problema di questi spinotti è l’inerzia termica. Sono grossi e troppo freddi. Sempre. Non si scaldano mai quegli stronzi. È come infilarsi un dito ghiacciato nella schiena.
Per stavolta sei fortunato, te li abbiamo scaldati, ma abituati a trovarteli ghiacciati. Quando salti nella rete per un emergenza non hai nemmeno il tempo per pensare, figurati scaldare questi bastardelli.

venerdì 28 gennaio 2011

Torneremo assieme

Contest Gennaio 2011 - Deviantart - AmiciNeiSogni

Continui a non parlarmi.
Te lo ricordi la prima volta che siamo stati in questo albergo? Eri così entusiasta; quando hai saputo che saremmo di nuovo stati da queste parti, hai fatto di tutto per poterci tornare assieme. Ti piaceva proprio tanto. Come non comprenderti: di fronte alla spiaggia, cinque stelle, in stile classico mediterraneo, con le stanze ampie, ben arredate e perfino del tuo colore preferito. Sembrava costruito apposta per te, nato da un tuo sogno.
Ti ho fatto una bella sorpresa per la cena il primo giorno. Siamo andati a mangiare al ristorante di pesce in quell'isolotto dietro la scogliera e sapendo che non amavi la folla, l'ho prenotato tutto; solo per noi due. Abbiamo cenato sul mare.
Nei tuoi occhi azzurri leggevo "Ti amo".
Ma da quando abbiamo fatto pace, quel riflesso di amore che avevano i tuoi occhi è scomparso. Non ricordo nemmeno perché avessimo litigato; era successo qualcosa qui in camera ed ero furioso, ma l'importante è che alla fine hai smesso di urlare ed arrabbiarti e siamo riusciti a ritrovare la nostra intimità. Abbiamo anche fatto l'amore e questo – sono sicuro – vuol dire che abbiamo fatto pace. Non negarlo.
Sei stata in silenzio per tutta la notte e speravo che oggi saresti tornata la solita, ma è tutto il giorno che stai nel letto e che non proferisci parola. Almeno girati. Guarda, il sole sta per toccare il mare. Questa stanza era la tua preferita perché potevi vedere il tramonto da qui.
Lo sai, non ho più molto tempo. Sono stato capace di tenerli fuori dalla stanza per tutto il giorno, ma questa notte mi verranno a prendere. Dimmi qualcosa; ti prego dimmi ancora "Ti amo". Parlami un'ultima volta e concedimi la redenzione dal mio errore; ma so… so che non puoi più perdonarmi.
Eccoli, sono arrivati. Ormai è tardi.
Ti saluto, ma ti prometto che ci rivedremo. Qui per l'omicidio c'è la pena di morte, quindi aspettami.
Torneremo assieme.