mercoledì 30 maggio 2012

Gran finale

Per il contest "A hard day's night" di #Artescritta (Deviantart)

Oggi mi avevano fissato la riunione nell'ufficio del personale. Dopo tre anni di palate di merda ingoiate e di matasse sbrogliate con una retribuzione al minimo sindacale, da quelle facce di merda non mi aspettavo altro che la proposta per un nuovo contratto più vantaggioso. E invece me ne tornai a casa disoccupato a metà giornata, trovando la mia fidanzata intenta in un selvaggio rodeo sul cazzo di uno sconosciuto.
Ci sono cose che mandano fuori di testa anche il più pacato e questo era materiale capace di farmi diventare uno stronzo di prim'ordine. Non le dissi una sola parola, ne cercai di ascoltare alcuna delle sue. Le indicai la porta e basta. Si prese qualche straccio dall'armadio, qualche cosa dal bagno e se ne uscì. Poi mi lasciai cascare sul divanetto reclinabile, riavvolgendo il nastro della mia vita e mettendo a fuoco vari momenti per capire cosa dovevo aver fatto di male per meritarmi una giornata simile. Niente di niente, ma oggi c'era stato un bel vaffanculo al futuro che mi ero previsto solo quella mattina. Si ripartiva da zero.
Non so come ci riuscii, ma tra tutti quei pensieri mi appisolai. Un sonno leggero, disturbato da sogni fastidiosi; ricordo che in uno di questi c'era anche lei che faceva giochi sadomaso con Lenin. E sì che ero a digiuno dalla mattina. Ma come quel pensiero si fece strada nella mia testa, cominciai a sentire la fame. Aprii gli occhi e il cellulare mi disse che erano quasi le ventidue; oltre che avevo una decina di chiamate perse, qualche messaggio in segreteria e diversi SMS non letti. Lui poteva rimanere così fino a domani; io no.
Andai al frigo e presi dell'affettato, poi svuotai la dispensa di tutto il cibo spazzatura che trovavo. Tra merendine, patatine, un sacchetto di popcorn e un vasetto di peperoncini tondi ripieni al tonno, feci una cena schifosamente buona.
Poi tornai sul mio divanetto reclinabile, fissando il soffitto dell'appartamento con in mano la cosa più distante possibile da un hollywoodiano bicchiere di whisky; un succo di frutta alla pera in tetrapak con tanto di cannuccia pieghevole bianca a righine rosse.
Mi immaginai in quel momento. Ero patetico, e proprio in quel momento avvenne l'illuminazione: chiudere in bellezza. Dato che erano andati a farsi fottere tutti i progetti della mia vita e da domani avrei cambiato tutto, tanto valeva approfittare dell'ultima notte brava. Sarei andato alla ricerca della musica ad alto volume e delle ragazze in abiti succinti sballate d'ecstasy, per poi risvegliarmi la mattina successiva in una pozza del mio stesso vomito con uno sciame di spine danzanti nella testa. Sentivo di aver bisogno di un simile sfogo, l'avrei presa come il motivo per il quale mi era successo tutto quanto. Una scusa perfetta.
Il problema di fondo era che se avessi voluto entrare in una discoteca, mi sarebbe stata obbligatoria una buona dose d'alcool per reggere quella merda che pompava a tutto volume fuori dalle casse; ma a me l'alcool faceva schifo. Le uniche cose che ero capace di bere quando andavo fuori erano: cosmopolitan, grasshopper, baylies. Roba dolce dicevo io; roba da checche scherzavano i miei amici. Poco importava, quelli potevo mandarli giù e me ne sarebbe servito qualcuno prima di raggiungere la discoteca.
Mi misi in ghingheri, presi le chiavi dell'auto e scesi al bar sotto casa per farmi un buon drink prima di mettermi a guidare. La discoteca era davvero poco distante, potevo permettermelo. In fondo non me ne fregava niente. Non quella sera.
Tirai giù di un fiato un baylies e un cosmopolitan; il tempo di raggiungere l'auto e arrivare in discoteca che cominciarono a fare effetto. Sentivo la testa leggera e l'umore era già migliorato. Superai l'ingresso senza problemi e mi apprestai a pagare l'ingresso con un sorriso idiota stampato sul volto. Poi entrai nella sala da ballo e la musica mi investì come un'esplosione.
Luce soffusa, una leggera nebbia di ghiaccio secco e glicerina, raggi di luci colorate che correvano in ogni dove e, nel mezzo del salone, una bolgia umana saltellante al ritmo di quello schifo. Decine di poltroncine circondavano la pista da ballo rialzata e ai vertici del poligono ‒ sui cubi ‒ una sconcertante quantità di “a malapena maggiorenni” si dimenavano come se fosse il loro ultimo giorno di vita. Non volevo bere altro e mi diressi subito verso la pista tenendo il ritmo agitando la testa. Non avevo mai ballato in vita mia, ma là in mezzo non serviva alcuna esperienza. Era arrivato il momento di fare il cretino.

Era passato del tempo, anche se non avevo un'idea precisa di quanto, da quando mi fiondai nel casino più totale. So solo che i timpani non riuscivano a sentire altro che quel rumore ritmico e avevo ancora abbastanza alcool in corpo per reggere quell'affronto alla musica. Ad un tratto vidi una ragazza. Sembrava spiccare in mezzo a quei corpi agitati probabilmente per un solo motivo: mi stava fissando. Ricambiai lo sguardo con un sorriso e mi girai nella sua direzione. In risposta lei cominciò ad avvicinarmisi ed io notai come quegli occhi fossero strani, sembrava trasognata. Mi arrivò a contatto e mi resi conto che non stava vedendo me, ma sembrava che stesse fissando qualcosa oltre a me e dentro di me allo stesso tempo. Aveva un bicchiere in mano, vuoto, e mi si avvicinò all'orecchio. Mi aspettavo che dicesse qualcosa, invece ricevetti una leccatina sul collo e un dolce morsetto sul lobo. Ebbi un brivido. Poi tornò davanti ai miei occhi, fissandomi, ma senza vedermi. Si avvicinò di nuovo per cominciare una lotta libera tra lingue. Pensai che forse quella sarebbe stata la mia notte fortunata, poi lei mi infilò la mano libera nei pantaloni. Potevo togliere il forse.
Non avevo alcuna intenzione di aspettare, ne di pensare al perché. Volevo solo difendere la piega “fortunata” che aveva preso la giornata. Le gridai all'orecchio che potevamo andare a casa mia e lei esplose in un urlo di felicità abbracciandomi forte, da farmi male. Non mi mollò nemmeno quando facemmo timbrare i biglietti all'uscita.
Riuscii a scollarmela di dosso solo quando la convinsi a salire in auto. Le aprii la portiera e si accomodò guardandosi attorno entusiasta.
Partimmo verso casa, ma lei sembrava già arrivata. Nonostante distavo solo pochi minuti dal mio appartamento, lei si stava già scaldando. Partì con lo stimolarsi i capezzoli con le mani, lanciando qualche mugugno di piacere ogni tanto e mordicchiandosi le labbra nel mentre; poi allungò una mano tra le mie gambe cominciando ad accarezzarmelo. Si girò verso di me e io la guardai. Di nuovo gli occhi erano rivolti verso di me anche se lei sembrava vedere dentro di me e oltre; mi sorrise innocente. In quel momento, qualche parte del mio cervello cercò di gridare che le cose stridevano, ma continuò ad essere pestato dall'alcool e io non lo volevo sentire. Avevo una giornata di merda da scaricare.

Arrivammo al mio appartamento. Le aprii la porta e la feci accomodare. Come mi girai per chiudere la porta, lei mi saltò a cavallo sulla schiena e cominciò a leccarmi il collo. A fatica chiusi a chiave la porta e, mentre mi stava infradiciando il colletto di saliva, sembrava che grugnisse qualcosa come “letto, ora, letto, ora”. Per reggerla le infilai le mani sotto al sedere, palpandola platealmente. Lei esalò un gemito di piacere, per poi agitarsi e sentire le mie mani che si strusciavano sotto di lei. La portai nella camera da letto, dove lei mi liberò la schiena e si lanciò sul lettone. Le lenzuola erano ancora quelle dell'adulterio, ma non me ne fregava niente. Anzi, sembrava una piccola rivincita.
Si denudò ad una velocità pazzesca. Fece volare via le scarpe e il vestito in un attimo, al punto che io non ero ancora riuscito a togliermi i pantaloni nel frattempo. Mi sedetti sul letto per togliermi camicia e calzini. Una mia fissa: non ce la farei mai a rimanere con i calzini, nemmeno da ubriaco. Lei si piazzò dietro di me e cominciò a massaggiarmi le spalle ansimando “dai, dai, dai”. Sembrava che stesse facendo tutto da sola.
Come accennai a volermi togliere la camicia, lei passò a stuzzicarmi i capelli con le mani, mentre con la lingua tornò a lavorarmi i lobi delle orecchie. La camicia volò ai bordi della stanza e io mi girai per cominciare a darci sotto in due, nonostante lei avesse accumulato un discreto vantaggio.
Sembrò inarrestabile e io stesso mi meravigliai della mia prestazione. Forse fu lo stress da incazzatura da smaltire, ma feci un record di durata. Raggiunsi la quarta base per tre volte in un solo inning. Memorabile.
Poi crollai al sonno, sorridente, come un vero idiota. Magari mi sarei potuto prendere ancora qualche giorno prima di cambiare vita.

Uno squillo, forte. Non so se fosse il primo, ma mi svegliò. Erano appena passate le tre di notte e mi chiesi chi potesse rompere i coglioni a quell'ora.
Mi girai e lei era in piedi, mi guardava con degli occhi spalancati dal terrore. Aveva dipinto in faccia lo smarrimento più puro e la cosa spaventò anche me, perché lei non aveva la minima idea di quello che aveva fatto e di quello che stava per fare. Non fu certo il cellulare nella sinistra che mi terrorizzò, ma fu la destra ‒ che mi puntava contro un piccolo revolver da borsetta ‒ che mi sciolse l'intestino al punto che per poco non trasformai le lenzuola da: palco di un doppio adulterio, a: possibili reduci di un porno scatologico.
Non bastava una giornata dura, pure un finale di merda per la nottata.