domenica 4 aprile 2010

High

Fair deal - Part 2

La stradina era semideserta e le poche persone che passavano accanto a Roberto non concedevano la minima attenzione a quel posto capace di celarsi con estrema facilità dietro l’indifferenza della gente; nessuno dotato di un minimo di buon senso avrebbe mai accarezzato l’idea di superare l’uscio del Grungy Red. In quel momento, lui era l’unico capace di vedere oltre la lercia scritta al neon che sovrastava la piccola porta d’ingresso bloccata dal buttafuori al piano semi interrato del palazzo, ed a percepire qualcosa di più dietro alla musica – se quell’accozzaglia di suoni era definibile come tale – che usciva sorda dalle pareti di cemento dell’edifico. Quella era la sua personale visione dell’ingresso del paradiso; per questo i freni inibitori di Roberto erano incapaci di agire. Adesso niente più aveva la forza di tenerlo dall’altra parte della strada dove, combattuto, aveva cercato di valutare se abbracciare di nuovo quella lenta e piacevole agonia o ritirarsi dal quel doloroso gioco di ricordi. Camminava verso l’ingresso senza timore; era pronto allo scambio: svendere un’altra fetta del suo futuro per un assaggio del suo passato.
Il rito si ripeteva anche per questa notte, del tutto simile a quanto era accaduto per tutte le sere che l’avevano preceduta. Prima di raggiungere la porta si lasciò squadrare dagli occhi imperscrutabili dell’enigmatico bestione immobile di fronte ad essa. Roberto a sua volta l’aveva osservato con attenzione e aveva raggiunto la certezza che se non fosse stato per la carnagione pallida, l’abbigliamento moderno e gli occhiali da sole griffati (nonostante l’ora della notte), il buttafuori sarebbe sembrato uno di quei distributori di sigari a forma di capo indiano che ogni tanto apparivano nei vecchi film americani.
Dopo aver indugiato sul ragazzo ed il suo borsone per qualche istante, il grosso omone gli fece un cenno appena percettibile con la testa, indicando l’ingresso. Roberto ricambiò il gesto in segno di ringraziamento mentre si dirigeva verso la porta che conduceva nella piccola anticamera del locale rivestita di tappezzeria cremisi. La solita receptionist – una snella bionda con capelli corti sulla trentina – si affacciava dalla finestra del guardaroba prestando più attenzione alle sue unghie finte che agli avventori di passaggio. In barba al grosso segnale di divieto che capeggiava vistoso sopra la sua testa, una sigaretta accesa attendeva una nuova boccata, poggiata sul portacenere di fronte a lei.
Senza muovere la testa dalla posizione in cui si trovava, trascinò lo sguardo su di lui per poi tornare a osservarsi le unghie.
“Ciao. Anche questa sera?”, chiese con il solito tono piatto
“Si”, rispose mentre si toglieva la giacca imbottita e la poggiava sulla mensola.
“E quello non me lo lasci?”, posò lo sguardo sul borsone.
“No, mi serve”
Lei accennò una smorfia “Beh, divertiti” .
Roberto spinse la grossa porta isolante e subito il volume della musica lo investì, prima ancora che l’odore di chiuso, polvere, fumo e sudore furono capaci di farsi sentire, misti in quell’atmosfera calda e umida che riempiva il salone principale. La porta gli si richiuse dietro e concesse il tempo necessario agli occhi per adattarsi alla fioca luce rossa e fucsia emessa dai neon e dalle luci stroboscopiche. Il bancone del Grungy Red occupava uno dei due lati corti della stanza alla sua destra, mentre alla sua sinistra troneggiava un grande palco rialzato per gli spettacoli a tema erotico, temporaneamente occupato da un gruppetto metal che scaldava l’ambiente; nel mezzo, oltre le poltroncine con i tavolini per le semplici consumazioni, c’erano alcuni tavoli vuoti che venivano spesso occupati per il blackjack e il poker Hold’em in base alla serata. A prima vista il locale non sembrava niente di più di un immondezzaio che offriva agli avventori un intrattenimento all’estremo della legalità, ma dietro a quell’aspetto di club controverso nascondeva qualcosa di molto più profondo ed incredibile, oltre al limite del reale.
Terminato l’adattamento alla scarsa luce, la vista del locale ancora semi-deserto gli strappò di bocca un’imprecazione sommessa. Era arrivato troppo presto. Confermò la supposizione guardando l’orologio sulla parete di fronte a lui; ci sarebbero voluti almeno altri quindici minuti prima che la solita calca facesse irruzione, e con essa si sarebbe fatto vivo anche il suo assaggio di passato.
Roberto ne aveva un immediato bisogno o la sua mente lasciata libera di correre avrebbe presentato il conto troppo presto. Strinse le dita attorno alla fascia del borsone sulla sua spalla, quasi ad assicurarsi che fosse ancora lì con lui. Il suo contenuto gli ricordava che questa notte non poteva permettersi di sbagliare.
Per far ammazzare il tempo in eccesso decise di bere qualcosa di forte. Gli sarebbe servito.
Nella breve traversata dei tavoli verso il bancone del bar, gli occhi puntarono sulla porta tagliafuoco recante la scritta PRIVATO – formata da grossi caratteri bianchi su fondo rosso – che, con la sua soglia, divideva la realtà da tutti conosciuta con quella a disposizione di pochi sfortunati, quasi la stessa scritta fosse un avviso al riguardo.
Il barista che attendeva dietro al moderno bancone dimostrava di aver superato i quarant’anni già da diverso tempo. Quando vide Roberto, esordì con la frase preconfezionata “Buona notte e bentornato al Grungy, cosa posso servirti?”. Il tono rassicurante della voce faceva a botte con il suo occhio sinistro completamente bianco.
“Ciao, preparami il solito bloody mary per favore”, disse mentre pensava dentro di sé quanto il destino fosse dotato di un’ironia piuttosto cinica.
“In arrivo”, rispose il barista cominciando a trafficare tra vodka, sale, spezie e succo di pomodoro.
Gli occhi di Roberto correvano senza sosta tra l’orologio, il barista indaffarato nella preparazione e la soglia del mondo reale, mentre continuava a chiedersi perché lei non si trovasse ancora nel salone.
“Ecco qui”, il barista gli porse un bicchierone colmo del cocktail preferito da Roberto “e rilassati, la tua Samantha non è ancora uscita. Arriverà a momenti”.
“Grazie”. Lasciò una banconota da dieci euro sulla superficie di vetro satinato del bancone e cominciò a dedicarsi al bloody mary sorseggiandolo con calma dalla cannuccia. Doveva dosarlo con attenzione e distrarsi completamente da quell’attesa straziante; si concentrava sui singoli sapori miscelati, sul salato, sull’accenno di rafano che grattava con delicatezza la gola, il differente piccante del tabasco che faceva bruciare la lingua come una forte pizzicata, sul sapore acidulo e fresco del pomodoro e sulla vodka che lavava via tutto, peccati e tristezza compresi. Almeno così voleva credere. Con gli occhi andava alla ricerca delle particelle in sospensione nel liquido rosso, cercando di intravedere le spezie che danzavano, browniane, nello spazio di quel bicchiere; si perdeva dentro quel colore acceso con la mente, riuscendo a mettere da parte il vero motivo della sua presenza lì; erano lui e il bicchiere, tutto il resto era un alone indefinito di confusione. Solo loro sembravano reali, altro tocco d’ironia del destino.
Un’ombra si stagliò di fronte a lui e alzò lo sguardo. Bastò un attimo per mettere a fuoco quel volto angelico, con i suoi lisci capelli neri a caschetto da ragazzina che lo facevano impazzire, quegli occhi azzurro ghiaccio capaci di mozzare il fiato e la piccola, inimitabile cicatrice sotto il mento.
In un colpo solo, tutte le emozioni fin lì accumulate scomparvero come oscurità davanti alla luce. Il cuore quasi gli cedette.
“Ciao Roberto. Chissà perché, ma ero certa che saresti venuto anche oggi”, Samantha gli sorrise serena, quasi innocente.
Il sangue di Roberto aveva cominciato a battergli in testa, rimbombava potente nelle vene. Stava per piangere, ma questo pianto aveva imparato a controllarlo.
“Ciao Sara”, rispose sorridendo a sua volta.
Un’espressione seria si dipinse sul volto di lei, facendogli perdere quell’armoniosità con la quale si era presentata.
“Scusami … ciao Samantha”, sospirò.
“Vedo che non riesci a resistere neanche un minuto” lo fissò per qualche secondo con un’aria avvilita ed interrogativa per poi esordire “Dai andiamo”. Lo prese per la mano destra e si alzò aspettando che con la sinistra finisse d’un fiato il bicchiere di bloody mary. Gli sarebbe servito, era al punto di non ritorno.
La porta con scritto PRIVATO si chiuse alle loro spalle, lasciando spazio al lungo corridoio scarno, male illuminato e maculato dalla muffa, che serpeggiava nell’ampio retro del locale. Samantha camminava con passo agile, dondolando leggermente i fianchi – per lei sempre troppo larghi ma che lui trovava perfetti – stretti nella gonna corta indossata sopra delle calze nere che coprivano per intero le gambe. Scorrevano le numerose stanze private dove le ragazze come lei portavano i clienti per sfamare i bisogni reciproci: voglia e sopravvivenza. Roberto era concentrato solo su di lei. Fissava e registrava ogni suo singolo movimento, le mani aperte che passavano radenti il suo corpo perfetto, i capelli neri che sventolavano leggeri sopra le sue spalle, il passo aggraziato e deciso. Il piacere dell’attesa era ai massimi dell’intensità, sembrava una mano che gli stringeva il petto oltre lo sterno. Si fermarono davanti alla stanza 12, la sua. Aprì la porta e lo fece accomodare indicandogli il letto. Appena superata la soglia, lei chiuse la porta e girò la serratura. Fuori si accese la scritta “Occupato”. Nessuno li avrebbe disturbati per tutto il tempo necessario.

2 commenti:

  1. Grande Norman, constato felicemente che migliori nei periodi, nella scelta delle immagini e nell'apertura/chiusura dei fronti. Questo racconto si legge d'un fiato... ma: chi è Sara? Continuerà la storia vero?

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  2. Non vorrei sembrarti sarcastico, ma è scritto nell'apertura della prima parte. Nel sogno. Comunque, spero entro la fine del mese di pubblicare gli altri due "capitoli" che sono già stati buttati giù in preda all'ispirazione e che devono solo essere "tradotti".

    Grazie per il commento.

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