venerdì 8 ottobre 2010

Un gatto di nome Caronte

Versus - Intro

Il riverbero dello sparo si sciolse nell’aria e Caronte ne uscì illeso. Il colpo l’aveva mancato.
Era l’istante per il quale valeva la pena vivere: la conferma che anche quella sera aveva sconfitto la morte. Rapido come lo scatto di un atleta al suono della pistola, il piacere allo stato puro gli si riversò nelle vene, intorpidendolo nell’estasi per pochi interminabili secondi. Poi l’emozione cominciò a scemare, toccava a lui. Si girò e puntò la sua arma contro Svetnik.
Il suo avversario aveva chiuso gli occhi e stava aspettando il colpo con apparente serenità, onorando il suo soprannome. Santo, in sloveno.
Caronte esplose l’unico colpo a disposizione, centrandolo al torace. Svetnik lasciò cadere l’arma scarica a terra e portò la mano destra alla ferita mentre si sedeva a terra, poggiando le spalle sulle pareti del vicolo. Il cemento cominciò a tingersi col suo sangue. L’altro ripose la pistola nella fondina sotto la giacca e cominciò ad avvicinarsi all’uomo a terra.
Per definizione erano avversari, ma non riusciva considerarli tali. Facevano tutti parte di una sventura che ci si infliggeva nella libertà di scelta. Per lui quelli erano compagni e l’uomo a terra di fronte a lui era un altro che sé ne andava; un altro che aveva scelto quella strada come tanti altri e ora lasciava proprio a quegli altri l’onere di continuare da soli il loro contratto. Era un finale inevitabile che non amava; non provava piacere in quell’esito, solo rimpianto. Quello che non riusciva a capire era come ogni avversario sconfitto mostrasse sempre la stessa espressione: colpevolezza. Di cosa, lo sapevano solo loro.
Adesso gli toccava aspettare. Per quanto sembrasse una cosa molto semplice, attendere la morte dell’altro giocatore era una straziante ma necessaria precauzione per evitare una possibile situazione molto più imbarazzante nei giorni successivi. Non tutti erano capaci di reggere quella pressione emotiva (qualcuno segnava il punto e scappava via come un ladro) ma chi riusciva ad affrontarla, la fronteggiava con vari espedienti per affievolirne il sapore amaro. C’era chi, pur odiando il fumo, si accendeva una sigaretta dopo l’altra; chi li guardava da lontano, cercando di nascondersi agli occhi della vittima; chi doveva distogliere lo sguardo e controllare solo di tanto in tanto mentre ascoltava musica con gli auricolari a tutto volume. Caronte si sedeva accanto alle vittime, tenendogli una mano tra le sue. In questo era unico.
«Caronte ah? Zdaj razumem zakaj» commentò con un filo di voce lo sloveno.
Caronte gli rispose sorridendo e stringendogli la mano ancora più forte; l’altro aveva capito il perché del suo nickname. Come il personaggio dal quale aveva preso in prestito il nome, accompagnava le vittime dall’altra parte. Morire era un epilogo già abbastanza triste ed essere anche abbandonati era una beffa, quindi non li lasciava da soli al loro destino. Così facendo sperava che il suo assassino si sarebbe comportato allo stesso modo con lui – perché sapeva che prima o poi sarebbe arrivato il suo turno.
Aver firmato quel contratto equivaleva ad una morte sicura, era solo una questione di tempo. Nessuno poteva sapere quando sarebbe successo, ma la statistica parlava chiaro; prima o poi sarebbe accaduto. Durante le partite, la sua mente gli sbatteva davanti agli occhi una curiosa realtà. Era vivo e morto allo stesso momento. Lui non era altro che un gatto di Schrödinger dentro la scatola che ad ogni colpo sparato si apriva per mostrare al mondo se anche quella sera sarebbe sopravvissuto al contratto. Per questo l’inconfondibile suono sordo della pistola faceva scattare dai blocchi di partenza il piacere.
La presa di Svetnik stava diventando più morbida di secondo in secondo. Trascinò lo sguardo un’ultima volta sul viso di Caronte.
«Andrà tutto bene» gli sussurrò in risposta a quel gesto.
Lo sloveno tornò a guardare di fronte a se e lasciò andare la testa contro la parete dietro di lui, sospirando per l’ultima volta. La presa si ammorbidì definitivamente.
Caronte lasciò andare la mano del suo compagno e si allungò per recuperare la pistola scarica che giaceva a terra a mezzo metro da lui, portò il manico accanto a quella della sua e attese che il piccolo led rosso lampeggiasse tre volte in segno di conferma.
Si rialzò da terra e salutò il corpo senza vita dell’altro giocatore con la sua solita frase «Addio e grazie». Lasciò il vicolo per tornare a casa, portandosi dietro due sole certezze: insonnia e vomito. Due compagni che non l’avevano mai tradito nel fine partita, lasciandolo sveglio fino al mattino seguente e facendogli vomitare anche l’anima nell’attesa – giusto per dargli qualcosa da fare.
Un ultimo pensiero si fece strada appena terminata la previsione per il resto della serata “Per fortuna domani è domenica”.

3 commenti:

  1. sono senza parole.... bela staria, ricca di sott'intesi e di curiosità. belle citazioni e bei ragionamenti. davvero ottima.... solo una domanda: ora come pensi di completarla?

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  2. La storia c'è tutta, non ti preoccupare. Devo solo trovare il modo corretto di esporre certi fatti. Purtroppo trovare il tempo in questi giorni sta diventando difficile.

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  3. correzioni ortografiche:
    "lo sloveno tornò a guardare di fronte a sé" hai scritto se senza l'accento. mia cognata mi ha detto che dovresti comunque mettere una nota con la traduzione di «Caronte ah? Zdaj razumem zakaj»

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