domenica 30 giugno 2013

Cyberclinik Darkness

Cyberclinik - Parte 3

Il ronzio scatta e le serrature delle celle si bloccano. O'Donnel dice qualcosa sul fatto che siamo al completo, ma non gli presto la minima attenzione. Per via della sua efficienza adesso non ho più una cella libera, ergo di colpo mi aspetta una valanga di lavoro: un mucchio di ritardati con qualche strana sindrome cyberpsicotica. Forse basterà un semplice trattamento con il braindance. Perché non fa come tutte le altre squadre della anticyberpsicosi? Loro hanno la buona abitudine di tenere premuto il grilletto molto più a lungo del necessario per non sperperare i soldi dei contribuenti in inutili cure costose. Gli do una stretta di mano, mostro il sorriso migliore che riesco a fare e lo invito a tornare al suo lavoro: qui ho da fare. Sto sudando, perché fa così caldo qua dentro? Non vedo l'ora che se ne vada; stranamente mi irrita la sua presenza. Credo che mi abbia guardato in modo strano, forse ha visto in me qualcosa che non va? Io sono capace di capirlo con i miei pazienti, forse avrà intuito qualcosa. Non mi interessa; capisca quello che vuole, io ho un appuntamento con il corpicino anoressico della 12B.
Raggiungo l'ala e parlo con le guardie. Mi guardano in modo strano, cosa cazzo stanno fissando? Cos'ho di sbagliato? Cammino lungo il corridoio delle celle mentre metto la penna ecografica in tasca e mi infilo i guanti per la perquisizione. Muoio dal caldo, possibile che sia la tensione? Non è la prima volta che faccio una cosa del genere ad una paziente. Arrivo davanti alla porta e attivo il monitor di sicurezza per vedere se è ancora legata. È rannicchiata in un angolo, si dondola in cerca di sicurezza e non parla. Almeno niente di comprensibile. Faccio attivare la serratura della porta ed entro. La guardo, mi guarda. Chiudo la porta, mi dirigo dietro di lei e comincio ad osservare le dita delle mani. Ci sono i segni di un impianto, ma non è da combattimento, è estetico; probabilmente tecnounghie ottiche. Prendo la penna ecografica e comincio a scannerizzarle i palmi delle mani. Nessuna risposta anomala. Niente impianti sottopelle. Passo ai piedi, niente sulle unghie, niente sulle piante. Sospiro. Non può essere stata lei a spaccare i cavi di costrizione. Ottimo. Disattivo la telecamera e mi tolgo i guanti. A noi due. Ho un caldo insopportabile. La metto in ginocchio davanti a me. Mi tolgo il camice e arrotolo le maniche della camicia. Lei continua a fissarmi. Lasciandola in balia del costrittore le tolgo la tuta dell'istituto, queste bellezze sono fatte apposta per essere tolte anche se il paziente è costretto in quella ridicola posizione. La guardo e non provo niente. Lo sapevo, non è proprio il mio genere. Ma non è il piacere quello che sto cercando, solo vendetta. Comincio a tastarle il ventre, fingo un qualcosa di medico nel modo in cui la tocco, poi mi lascio andare. Perché provo solo nausea? È davvero così messa male? Impugno la penna ecografica e mi avvicino alla museruola. Attivo la modalità alimentazione forzata. Il paradenti integrato le costringe la mascella in posizione aperta. Ora potrebbe gridare, ma stranamente sta zitta. Inserisco con dolcezza la penna ecografica, ci passa a malapena, e la estraggo coperta di saliva. Puzza da far schifo. Ripeto l'operazione qualche volta sperando che il mio corpo risponda. Niente da fare. Mi fermo. C'è qualcosa che non va. Sento che sto facendo qualcosa di sbagliato. Com'è possibile? Non dovrei farle del male. Se lo merita veramente? La guardo negli occhi, sono cambiati da stamattina: non mi guarda più con odio. Percepisco in lei una sensazione preoccupante: solidarietà. Mi sento male, sto per vomitare. Grido alle guardie e la serratura scatta, esco nel corridoio giusto in tempo per buttare fuori il pranzo sul pavimento. Ordino di ripulire e lasciar stare la paziente. Perché mi guardano in quel modo? Torno in ufficio. Faccio fatica a camminare, se non fosse per tutto questo caldo.

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