martedì 26 gennaio 2010

The final test - End

Multwins - Part 5 Last

Senza rendersene conto, aveva ucciso il soggetto iniziale – quello che aveva dato il via a tutta quell'incredibile storia. La stessa persona, invaso chissà da quale triste convinzione, annotò tutto il necessario allo svolgimento di quell'attività di “pulizia” nelle prime pagine del libro che si portava appresso.
Proprio nelle prime righe scriveva “Io ho cominciato tutto questo, ma non sono certo che sarò io a terminarlo. Probabilmente non lo merito dopo tutto quello che ho fatto. Tu che hai fra le mani queste parole, siediti e leggi attentamente. Se sei arrivato a questo punto, vuol dire che io sono morto, e tu, mio “clone”, stai per prendere il mio posto”.
Nel libro raccontava di come, i suoi esperimenti visionari sulla fisica delle stringhe lo portarono a scoprire e a toccare il multiverso, composto da quarantadue universi paralleli, contaminandolo involontariamente con la sua presenza. Non credeva fosse una cosa grave fino a quando non si rese anche conto che in nessun universo parallelo esisteva la stessa persona; da qui l'esperimento effettuato sulle cavie da laboratorio.
Il risultato fu scioccante. La cavia che contaminava il multiverso, moriva quarantadue volte più velocemente di una cavia gemella, a meno che non si uccidevano le altre copie per riportare le anime indietro.
L'asterisco, che correlava la parola anima, indicava a fondo pagina che si trattava solo di un termine confidenziale per indicare qualcosa di molto più complicato e scientifico, e che non si trattava agli effetti della parte spirituale della persona. Per Angelo, che non era lo scienziato visionario che aveva fatto la scoperta, quelle strane sagome umanoidi e luccicanti che comparivano stampate sulla pellicola della speciale serie 600 Polaroid che si portava dietro erano davvero anime. Qualsiasi cosa avrebbero provato a raccontargli.
Angelo aveva paura che non fosse l'unico che stesse perpetrando quell'obbiettivo di pulizia. Non sarebbe stato capace di sopravvivere ad una sorpresa come quelle che lui serbava agli altri cloni. Era stato parecchio fortunato quella sera, e così non lo sarebbe mai più stato.
Smise infine di fissare assente il medicinale mentre ripensava al passato.
Armato di tutto punto si diresse verso il letto e, dopo essersi cambiato e aver indossato una semplice tuta, ci si sdraiò sopra.
Tirò su la manica sinistra quasi fino alla spalla. Con velocità e senza pensarci, riuscì a stringere forte il laccio emostatico con l'aiuto dei denti. Oramai l'aveva fatto parecchie volte.
Doveva essere veloce. La prima volta che assunse l'Orezemina, si iniettò l'anestetico con quasi un minuto di ritardo e la cosa gli costò parecchio. Sia mentalmente che fisicamente.
Anche se non prendessimo in considerazione la sensazione di milioni di aghi che affondavano con la violenza di una coltellata, ciascuno su ogni millimetro quadrato della pelle, contemporanea all'impressione che delle delle mani artigliate stessero facendo a pezzi il suo torace velocità, il suono delle sue urla, distorte dal cambio di piano, e quello che furono capaci di vedere i suoi occhi in quegli istanti, furono la cosa più terrorizzante.
Non voleva riprovarlo. Piuttosto avrebbe accettato la morte, con sollievo.
Si guardò il braccio destro. Sembrava un drogato. Le traccie di tutte le iniezioni di Propofol erano ancora li, belle in vista. Non sarebbe più stato capace di vestirsi in maniche corte in pubblico per il resto della vita.
Strinse il pugno a ripetizione per una dozzina di volte bloccava la capsula di Orezemina tra i denti e preparava la siringa sulla vena.
Quando era il braccio assunse una colorazione quasi scarlatta, inserì l'ago nella pelle, alla ricerca di un pezzo di vena sana. Tirò leggermente lo stantuffo della siringa per vedere se aveva preso correttamente la mira. Il mischiarsi rapido del sangue con l'anestetico gli diede la conferma che stava cercando.
Inghiottì la pillola e premette lo stantuffo. Terminata la lenta corsa del pistoncino che sembrava infinita, estrasse la siringa con rapidità e scagliò a terra. Prese il cerotto pronto sul comodino e lo sbatté sulla ferita. Respirò a bocca aperta a fondo un paio di volte in piena velocità mentre sentiva i battiti del cuore che stavano cominciando a salire vorticosamente.
Sfilò il laccio emostatico con furia e attese.
Come una fiamma che risale piano, il Propofol bruciò la sua lucidità un centimetro alla volta, facendolo sprofondare in un sonno senza sogni, ancora una volta.

1 commento:

  1. mi è piaciuto questo.. ma da dove viene questa cultura sugli psicofarmaci??

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